“I giovani trapper? Hanno imparato a dire ‘dove sono le zocc***’ e ‘voglio la Lamborghini’. Il pop è come il Grande Fratello, se non sei omologato sei fuori”: così Neffa
- Postato il 19 ottobre 2025
- Musica
- Di Il Fatto Quotidiano
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Il rifiuto dell’omologazione, le rivoluzioni che “devono partire dai giovani”, i nuovi trapper italiani che hanno imparato a dire “dove sono le zocc***”, “voglio la Lamborghini” e il rap “che ha smesso di essere un genere ‘marxista’”. Neffa è un’enciclopedia della musica, ma anche un attento osservatore della nostra società. Dal monologo a “Le Iene” in cui aveva parlato di “genocidio del popolo palestinese”, allo sgombero del centro sociale Leoncavallo (“Milano ha voglia di emettere scontrino”). L’artista, oltre a ripercorrere i momenti più salienti della sua carriera, presenterà dal vivo “Canerandagio” in occasione di “Universo Neffa”, il suo live del 5 novembre, all’Unipol Forum di Milano. Per l’uscita della seconda parte del disco “Canerandagio” l’artista, a FqMagazine, ha approfondito il suo nuovo progetto discografico concedendo, anche, lucide considerazioni sull’attualità.
Come si fa ad essere “cane randagio” in questa società così omologante?
Lo trovo un po’ più facile venendo da almeno 7-8 culture prima. La mia generazione ha visto modificare il mondo così tante volte che non abbiamo neanche avuto tempo di processare tanti cambiamenti.’ Più esiste un’idea totalizzante, più esisterà sempre un pensiero che la sovverte’, direbbe Aldous Huxley. Sono convinto che anche tra i ragazzi che si trovano tutti a seguire lo stesso flusso, qualcuno sarà portato a dire ‘togliamoci da questa onda e cerchiamo una dimensione nostra, non omologata’. ‘Cane randagio’ è un inno alla non omologazione e può anche essere solo chiedersi il motivo dietro processi che diamo per scontati.
“In TV si parla di una pace che nessuno ha iniziato. Se sarà rivoluzione, allora che parta da me”, dice Nayt in “Domani”. Che effetto ti ha fatto vedere le piazze piene per manifestare?
È stato sorprendente. Perché le piattaforme digitali mi avevano restituito un appiattimento di forma. Sembrava il regno ideale di un urlo che viene sopito dal rumore di tutti gli altri. Ma se una voce forte si alza, e viene condivisa, si ha un effetto potentissimo. Era da molto tempo che, partendo dal basso, non si riusciva a modificare così tanto la politica, se non eleggendo un dittatore. Quindi l’ho trovato un segno molto forte e positivo, perché l’odierna politica internazionale sembra essere una palude in cui si fa fatica a muoversi. E invece, da sotto, sono arrivati con le idee molto chiare, svegliando anche chi stava sopra.
“Se esistono in un disco e poi spariscono. Distinguilo, si estinguono, capisci o no? Sbiadiscono, svaniscono”, rappi in “Show”. Qual è l’antidoto alla musica omologata?
La musica non ammala sé stessa e nemmeno si cura. È sempre una proiezione della società. Molti delusi sono quelli delle generazioni di mezzo, perché si sentono traditi dal mondo che li supera e dicono un generico: “Non si fa più la musica di una volta”. L’industria musicale vuole sapere cosa vuoi e, appena l’ha capito, ne dà a chili. Le rivoluzioni devono partire dalla gente giovane che, ascoltati dalla gente grande, dovranno dire: ‘Sentite, questa pappetta non è che non la vogliamo più, è che non la facciamo più’. Ed è in quel momento che si creerà una tendenza e nuove posizioni che poi modificheranno il corso anche di quello che è il mainstream.
Come vedi la musica pop?
Oggi è fatta per imitazione. Se in otto fanno una canzone, il ragazzino che cerca consensi, sarà il nono. La chiamo “La teoria del Grande Fratello”. Se esprimi anche solo un’opinione o una preferenza non conforme, vai in ‘nomination’, vieni allontanato e messo da parte. Per questo quindi, se la maggioranza sta facendo una musica un po’ analfabeta, l’ultimo arrivato la farà pure lui. Di certo non si metterà a fare la musica del ‘900. L’omologazione si vince solamente con la normale forma di rivoluzione, di ribellione a quello che è totalizzante.
Bisogna essere un po’ la pecora nera?
Però anche quello richiede un tempo giusto. Nell’evoluzione della musica ci sono stati dei momenti in cui se ti presentavi con uno strumento vero venivi visto male. Poi è arrivato un momento in cui se arrivavi con il beat elettronico facevi la figura di quello che non è figo. Si tratta anche di capire quando i tempi sono maturi per i cambiamenti. Se sei una minoranza, e da lì un “cane randagio”, devi avere la forza di stare al freddo sotto la pioggia perché credi nella tua idea.
“La dimostrazione che non mi capisce manco chi è capace”, dici in “Biancoenero”. In cosa ti senti maggiormente incompreso?
Quella rima è dedicata a un genere di persone che con “Canerandagio” (parte 1), forse si aspettavano un revival. Per me non era pensabile riprendere il rap come se avessi lasciato ieri. Come tematiche, atteggiamenti e sonorità. Avevo bisogno di un’evoluzione che, per definizione, può anche scontentare.
Nel monologo a “Le Iene” hai parlato di “genocidio del popolo palestinese”. Ghali, dato il silenzio di diversi artisti sul tema, ha scritto che “Il rap è morto”. Sei dello stesso avviso?
Ci ho riflettuto abbastanza. Ho capito da dove parte Ghali, ovviamente. Gli sono anche vicino perché ha preso delle posizioni scomode prima di tutti. Noi siamo gente che vuole intrattenere, fare pensare, sognare o fare incazzare con la musica. Non capisco perché ci si aspetti sempre tanto in termini di politica dai cantanti. Va fatta una grossa distinzione fra quello che è il personale e quello che è la politica e la politica di un artista. L’affermazione di Ghali mi ha un po’ sorpreso perché, conoscendo la storia del rap, ho visto che ha smesso di essere un genere “marxista”.
Da quando?
Già nei primi Anni 90 il gangsta rap si è portato via quel movimento. Ero contento quando la musica nera americana aveva una forza rinascimentale in termini di popolo afroamericano. La musica americana dagli Anni 20 ha vissuto momenti in cui i neri facevano un genere fortemente intriso di politica e voglia di rinascita. Penso al bebop degli Anni 40 ed erano gli stessi anni in cui un musicista poteva suonare nel club ma non poteva parlare o avere a che fare coi clienti. Quando ho sentito gli N.W.A dire “putt***”, “figli di p******”, “dammi i soldi”, me le rappavo queste cose, però mi rendevo conto che dal punto di vista di un europeo, non avevo nessuna possibilità di interazione. C’è stato un momento in cui nei centri sociali europei si era molto diffusa la musica raggamuffin. Quando la gente ha cominciato a capire che questi avevano i testi molto omofobi, il genere è stato bandito dai centri sociali. E gli stessi autori delle canzoni si sono resi conto che se avessero voluto lavorare in Europa, avrebbero dovuto darci un taglio e avere un genere che abbracciava più tutti.
E i giovani rapper/trapper italiani?
Hanno imparato “voi non mi capite”, “dove sono le zocc***” e “voglio la Lamborghini”. Questo sento dire. Da molto tempo l’hip hop non è un genere di presa sulla società, è totalmente omologato. È, dunque, più una questione personale, domandandosi se voglio o meno prendere una posizione. Capisco anche un cantante che dice “Non voglio dire nulla a livello sociale rispetto a questo”. Sono sicuro che oggi ci sono una certa percentuale di artisti che sono pronti a dire “assolutamente un disastro la situazione in Palestina”, purché nessuno gli vada a rompere le palle dicendo “tu non ti esponi”. A me non interessa questo. Mi preme che ci sia un vero cambiamento. Ho scelto di espormi nella mia misura e so che non vivo bene la situazione del pianeta.
Al Leoncavallo di Milano ti sei esibito coi Negazione e con i Sangue Misto. Che ne pensi dello sgombero?
Penso sia una cosa triste e credo che la città di Milano si adopererà affinché esista uno spazio per la creazione di altra cultura e aggregazione sociale, non omologata. Perché come diceva l’uomo ragno ‘da grandi poteri derivano grandi responsabilità’ e, una grande città come Milano, che si pone in un certo modo verso la cultura mondiale, deve fornire anche un esempio di come si possa diversificare. Non può avere tutto un cartellino del prezzo e dell’orario.
Milano si è riconfermata essere una città tanto inclusiva che, però, esclude ciò che non le è conforme?
Milano ha voglia di emettere scontrino, però è chiaro che la città deve dimostrare di che pasta è fatta. Il proprio core business è quello di non avere core business, e quindi di non essere omologata.
Negli anni hai ricevuto critiche dai puristi del rap per aver accantonato il genere. Tornassi indietro, rifaresti tutto?
Sì, perché tutto è sempre stato alla purezza del mio cuore. Non riuscirei a fare le cose per finta. La vera cifra politica di un artista è dare quello che è vero. E se la gente negli anni non ha saputo capire che il problema era proprio che non volevo fare finta, mi dispiace per loro perché vuol dire che non gli importa quello che è vero, ma solo quello che gli piace. E io lo rispetto, però non potevo darglielo.
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