I geni dell'uomo che ha beffato l'Alzheimer

  • Postato il 12 febbraio 2025
  • Di Focus.it
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Un uomo recante una mutazione genetica che lo rendeva destinato a una forma di Alzheimer a esordio precoce è arrivato in salute fino alla metà del decennio dei suoi 70 anni, evitando una sorte che sembrava scontata anche grazie ad alcune varianti genetiche protettive. Il suo caso, il terzo al mondo di questa apparente "resistenza" all'Alzheimer giovanile, descritto sulla rivista scientifica Nature Medicine, solleva nuove domande sull'universalità dell'ipotesi amiloide, l'idea cioè che sia l'accumulo nel cervello di placche amiloidi a determinare la neurodegenerazione tipica di questa demenza.. La mutazione nel mirino. L'uomo aveva una mutazione su un gene noto come PSEN2, una variante a trasmissione autosomica dominante: in questo tipo di modalità di trasmissione ereditaria, un genitore avente una copia mutata di uno dei due geni è malato a sua volta, e a ogni gravidanza ha una possibilità su due di trasmettere al figlio o alla figlia la malattia, per svilupparla basta ereditare il gene alterato, che "domina" su quello normale. La mutazione sul PSEN2 fa in modo che il cervello produca una forma di proteina amiloide più incline a formare aggregati neurotossici: chi ha questa mutazione, finisce puntualmente per sviluppare l'Alzheimer attorno ai 50 anni.. Nessun segno di Alzheimer. La madre del paziente era affetta dalla stessa mutazione, che ha trasmesso a 11 dei suoi 13 figli. Dal 2011, la famiglia era stata coinvolta in uno studio chiamato Dominantly Inherited Alzheimer Network (DIAN), un progetto internazionale con l'obiettivo di individuare i potenziali biomarcatori che possono contribuire allo sviluppo dell'Alzheimer nei soggetti con mutazioni che predispongono alla malattia. Quando l'uomo, all'età di 61 anni, ha contattato i ricercatori dello studio ancora in una perfetta salute cognitiva, il team guidato da Jorge Llibre-Guerra, della Washington University di St. Louis (Missouri) è rimasto spiazzato nel constatare che recava la mutazione sul PSEN2.. Le placche apparentemente innocue. Ancora più sconcertante, il fatto che il cervello del paziente fosse pieno di placche a base del peptide (il frammento di proteina) beta-amiloide, il sintomo più riconoscibile della malattia di Alzheimer nonché, si è a lungo ritenuto, la principale causa di morte neurale alla base dei danni cognitivi della malattia. L'esame PET (tomografia a emissione di positroni) ha rivelato che il cervello dell'uomo aveva un moderato accumulo di grovigli di proteina tau, un altro segno neurologico distintivo dell'Alzheimer, ma solo all'interno dei neuroni di una zona di norma non colpita dall'Alzheimer - il lobo occipitale, incaricato delle funzioni visive.. Per dieci anni, il paziente è stato sottoposto a qualunque tipo di test di memoria e ad altre valutazioni cognitive, e non ha mostrato alcun segno di decadimento (anzi, in alcuni compiti è migliorato con l'esercizio). Ha insomma resistito almeno altri vent'anni rispetto al resto della famiglia, senza sviluppare l'Alzheimer. Che cosa lo ha protetto?. Le indagini genetiche. L'uomo era privo delle mutazioni genetiche protettive in passato individuate in pazienti che recano un'altra variante che causa l'Alzheimer giovanile. In compenso, aveva nove varianti genetiche assenti nei suoi familiari con la mutazione PSEN2 e la demenza. Sei di queste non erano mai state associate all'Alzheimer prima d'ora, ma c'entrano con alcune funzioni che potrebbero contribuire alla malattia, come la neuroinfiammazione e il ripiegamento di proteine (l'accumulo del peptide beta-amiloide è dovuto a un ripiegamento errato della sua proteina precursore, che normalmente ha un ruolo utile e importante nella crescita e nella riparazione dei neuroni).. Alcune possibili intuizioni. Secondo gli autori della ricerca, una combinazione tra varianti genetiche (delle quali bisogna ancora determinare la funzione), stile di vita e fattori ambientali ha permesso al paziente di resistere alla demenza: l'uomo mostrava bassi livelli di infiammazione neurale rispetto alla maggior parte di pazienti con Alzheimer, come se il suo sistema immunitario stesse reagendo in modo meno violento alla presenza di placche amiloidi. Il fatto che la risposta immunitaria violenta agli accumuli di proteine nocive contribuisca a peggiorare la malattia di Alzheimer è ormai un'ipotesi piuttosto consolidata. Un altro dato interessante riguarda l'elevata presenza di placche amiloidi apparentemente non determinanti ai fini dei sintomi: l'idea di Llibre-Guerra è che ostacolare l'espansione della tau possa ritardare o persino fermare lo sviluppo della demenza..
Autore
Focus.it

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