I 90 anni di Bernardo Valli: una testimonianza fra tanti ricordi e una bella intervista
- Postato il 15 aprile 2025
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Bernardo Valli ha compiuto oggi 15 aprile 95 anni, essendo nato a Parma nel 1930. Lo conosco dal 1981, quando Giorgio Fattori, direttore della Stampa di Torino, lo convinse a lasciare il Corriere della Sera allora giornale numero uno. Valli ha lavorato al Corriere, al Giorno, alla Stampa e negli ultimi 40 anni a Repubblica, fin a quando ha rotto col l’ex direttore Maurizio Molinari. Da decenni vive a Parigi, con Laura Putti, brava giornalista che ha rinunciato alla carriera per amore.
A Parigi si è stabilito al tempo del suo matrimonio con una giornalista francese che fu capo dell’ufficio della Agence France-Presse fino alla morte, avvenuta in coincidenza con il passaggio di Valli alla Stampa. In precedenza aveva girato il mondo, soprattutto l’Oriente, per anni aveva avuto come base Singapore.
Valli, un mito per una generazione
Per i giornalisti della mia generazione Bernardo Valli era un mito. Aveva lasciato la elegante casa paterna, gran ginecologo a Parma, per prendere, insieme col cugino, il treno per Marsiglia, dove si erano arruolati nella Legione Straniera. Scampò alla strage di Dien Bien Phu, che segno la fine della avventura francese in Vietnam (allora Indocina) per una banale quanto fortunata coincidenza: un avvicendamento di routine. Non ho mai approfondito le ragioni del suo arruolamento. Mi ha colpito un suo ricordo di quel periodo. Essendo Valli sergente addetto alla mensa della compagnia, in occasione di un Natale fece cucinare un pentolone di ravioli, provocando la rivolta dei commilitoni, in gran parte alsaziani, cioè germanici e una condanna di Valli a una settimana di cella di rigore.
Il che la dice lunga sul carattere ferreo che nasconde il parlare soft del nostro. In altra occasione, su una barchetta ho fatto la discesa del Mekong da Chiang Rai a Vientiane. Quando glielo ho raccontato, Valli col suo abituale tono dimesso mi ha gelato: “Io pattugliavo il Mekong sulle motovedette francesi”.

Su un ponte in Iraq sotto le bombe
Certo Valli non è stato un giornalista da albergo, come si dice di molti inviati speciali, non solo italiani (gli inglesi preferiscono il bar dell’albergo). Epico resta un episodio, risalente alla guerra del Golfo, che Valli ha un po’ raccontato su Repubblica: l’incontro con un giovane tenente francese della sua Legione, su un ponte sotto le bombe.
La cosa che mi ha colpito di più è stato quando fu nominato segretario dell’Onu Boutros Boutros-Ghali. L’ex ambasciatore era a Parigi in quei giorni. C’ero anch’io e Valli era con me quando fu diffusa la notizia. Due telefonate e mi lascio per andare a intervistare il neo segretario: si conoscevano da tempo. Più volte lo ho esortato a raccontare in un libro la sua storia, la risposta essendo sempre vaga ma fermamente negativa.
Sono uscite invece alcune raccolte di articoli. Laura Putti ne ha pubblicato uno in occasione di questo compleanno. Ne da notizia Francesca Caferri, su Repubblica, pubblicando anche una intervista telefonica con Valli, tutto da leggere.
Il libro si intitola “Città. Luoghi, abitanti, storie (1958-2015)”, (Ventanas, pagg. 264, euro 18), precisa Caferri, raccoglie alcuni degli articoli che in più di 50 anni di carriera ha scritto sulle città del mondo che ha girato: lo pubblica Ventanas, la casa editrice di sua moglie, Laura Putti, a cui si deve il prezioso e paziente lavoro di cernita fra articoli da tutto il mondo che sta dietro al volume. È il terzo anno che Ventanas pubblica una raccolta di testi di Valli per il suo compleanno: in programma ce ne sono altre due.
In queste pagine, scrive Caferri, c’è il mondo: l’Africa, il Sud America, l’Europa, il Medio Oriente… ti manca viaggiare?
«No, mi sono stufato. Sono pochi i posti che non ho visto nel mondo: tanti me li sono proprio dimenticati, quelli di cui conservo ricordi sono pochi…».
Quali sono impossibili da dimenticare?
«Tre in cui ho vissuto. Il Congo, in cui ho passato tanto tempo. Sono capitato lì per caso, ero in Sudafrica: mi dissero di andare lì perché era il giorno dell’indipendenza. Io sapevo più o meno dove era il Congo, arrivai a Leopoldville (oggi Kinshasa, ndr) nel pieno del fervore dell’indipendenza. Senza nemmeno cambiarmi di vestito andai a Stanleyville, dove c’era Lumumba, di cui non avevo mai sentito parlare, ma veniva dato come il prossimo leader. Capitai in un comizio di Lumumba e alla fine lui, che era spocchioso e si dava molte arie, mi portò in macchina a fare un giro: poi facemmo insieme il viaggio di ritorno per Leopoldville dove andava a prendere il potere. Sono rimasto tanto tempo, ho girato il Paese e ho avuto buoni amici lì. Mi capitò anche di andare a prendere i cadaveri dei tredici aviatori italiani dell’Onu uccisi a Kindu, non lontano dal Katanga, perché scambiati per belgi durante la guerra civile (nel 1961, ndr)».
E gli altri Paesi?
«L’Algeria, in cui ho vissuto da giovane e poi sono tornato da giornalista: mi hanno dato la medaglia di Amico della rivoluzione algerina, ma non vorrei essere amico di questa Algeria, di questo governo. Ho ricordi molto forti dell’Algeria della Guerra civile. E il Vietnam, dove ho passato anni…».
Con Tiziano Terzani, fra gli altri…
«Certo. Abitavamo insieme a Singapore, che era a 45 minuti di volo da Saigon. L’Estremo Oriente era il primo posto a cui mi aveva assegnato il Corriere della Sera: mi fermai a Singapore di passaggio e c’era Tiziano, che avevo conosciuto un po’ a Milano. Mentre ero lì, con le valigie lasciate in deposito in un albergo, cominciò la crisi del Vietnam. Andai a Saigon e da lì a Tokyo. Rimasi in Asia tre anni facendo tanti viaggi».
Poi c’è Parigi: le pagine in cui parli della gentrificazione del Marais sembrano scritte oggi, osserva Caferri.
«A Parigi ero capitato diverse volte quando lavoravo come corrispondente da Londra per il Giorno. Poi ero passato al Corriere della Sera e mi avevano mandato in Estremo Oriente, poi mi fecero tornare e mi chiesero di andare a Parigi. Ma rimasi poco, perché appena arrivato sono andato a seguire la rivoluzione portoghese: da allora ho sempre avuto casa a Parigi. Da lì ho seguito l’America, Cuba, l’India…».
Nel libro c’è anche, e non poteva essere altrimenti, Gerusalemme: tu dici che c’è chi l’ha sempre detestata mentre tu la ami moltissimo. Che effetto ti fa vederla di nuovo in guerra?
«Gerusalemme l’ho conosciuta quando era sotto il controllo della Giordania. Il giorno in cui il governo israeliano occupò Gerusalemme (nel 1967, ndr) ero al Cairo, venivo da Gaza, che era in mano egiziana. Poi tornai a Gerusalemme e ci sono rimasto mesi: la Gerusalemme occupata dagli israeliani ha cambiato un po’ natura, anche se ci sono alcuni posti che raccontano ancora la sua Storia, come la Porta di Damasco per esempio».
Una città dove torneresti?
«Bombay: non per viverci ma per vedere come è cambiata. Mi ci mandarono prima che il Papa Paolo VI andasse in India, nel 1964. Ma prima di allora avevo già fatto un’intervista molto importante con Nehru, a Delhi, la prima che dava a un giornalista straniero. L’India è un Paese che non può non affascinare: può suscitare sentimenti ed emozioni contrastanti, ma non può non affascinare».
Qual è invece un posto dove non andresti più?
«Il Medio Oriente. Non tutto, magari. Mi dicono che Beirut è molto cambiata, era un posto affascinante, curioso, ora non saprei immaginarla. E non so se avrei voglia di vederla».
Si arriva a parlare di mestiere
“Qualche volta, dice Valli, compro i quotidiani ma spesso sono già vecchi, le notizie della radio li hanno superati già al mattino».
Segue un atto d’amore:
«Io voglio bene alla stampa scritta e a Repubblica in modo speciale, ho in mente con grande nostalgia gli anni di Eugenio, che è stato forse il più grande giornalista italiano e un grande amico. Ricordo gli anni passati con lui con affetto e anche con ammirazione».
Scalfari lo ricambiava al punto da includerlo nella Rodri suoi possibili successori.
Chiede Caferri: torneresti a fare il giornalista?
«Certo. Essere giornalista mi ha permesso di girare il mondo in lungo e in largo, di vedere le cose cambiare sotto ai miei occhi, di leggere moltissimo, di incontrare personaggi impressionanti e anche commoventi da ricordare…».
Come Che Guevara? Un giorno in redazione ci hai tenuti tutti incollati alle sedie mentre raccontavi di quando avevi conosciuto Che Guevara…
«Certo. Ero in Africa, andavo a Nairobi e sull’aereo vidi un uomo che sembrava Che Guevara. Pensai che fosse un matto vestito come lui: perché mai Che Guevara doveva essere lì? E invece era lui, quello vero. Passammo una notte intera a parlare a Nairobi: era scocciato dalle domande dei giornalisti sulla politica, sul futuro. Mi disse che se evitavo di chiedergli quelle cose potevamo chiacchierare: così abbiamo fatto. Mi ha raccontato quello che era andato a fare in Cina, perché veniva da lì. Fu con me un uomo di grande generosità».
È lui il tuo preferito, fra i tanti grandi che hai incontrato?
«No, ce ne sono altri anche. Per esempio Nehru, un uomo affascinante e di grande cultura. Facemmo un lungo viaggio in treno insieme».
Abbiamo parlato di tante città, ma non di quella in cui sei nato, Parma: nel libro non c’è, ma so che la ami molto…
«Sono partito presto e tornato poche volte. Ma quando qualche anno fa mi hanno dato una laurea ad honorem sono stato orgogliosissimo».
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