Hr nell’era dell’IA: perché il vero vantaggio competitivo resta umano
- Postato il 9 ottobre 2025
- Innovation
- Di Forbes Italia
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La tecnologia siamo noi umani. L’intelligenza artificiale è un nostro strumento. Un imprinting culturale che sta diventando dominante. Le hr stanno guadagnando posizioni nella piramide gestionale dell’impresa. Stiamo andando verso l’eterarchia. Ne abbiamo parlato con Marco Gallo, manager director di Hrc Group, la più grande community hr di aziende.
Proprio quando la tecnologia prende più spazio, emerge l’esigenza di valorizzare l’umano…
Quando Apple lanciò il primo iPad nel 2010 molti dissero che “non sarebbe servito a nulla” perché “era solo un telefono grande”. Quando Internet entrò nelle aziende, ci si chiedeva se non avrebbe distrutto posti di lavoro. E nel 1999 il ceo di BlackBerry dichiarava che i telefoni “non erano fatti per navigare”. Eppure ogni volta, con dimensioni diverse, lo abbiamo già vissuto: ogni rivoluzione tecnologica ha portato scetticismo e timore, ma ha anche generato nuove possibilità, nuovi modelli di business, nuove competenze. Cosa è successo? Le organizzazioni che hanno saputo adattarsi, sperimentare e integrare sono cresciute; quelle che hanno resistito sono rimaste indietro.Ma c’è una grande differenza rispetto al passato: questa tecnologia, l’Ai, per crescere ha bisogno del nostro contributo diretto o indiretto, perché impara da noi, ci osserva e acquisisce le nostre competenze elaborative e di processo a una velocità pazzesca e sempre più con una precisione e possibilità di errore millesimale. Questo ci apre – se vogliamo – a uno spazio di crescita relazionale e creativo straordinario: più i processi diventano digitali, più cresce il bisogno di mettere al centro le competenze umane. L’automazione, la robotica e l’Ai liberano tempo e risorse, ma non generano da sole fiducia, senso o creatività. Il vero vantaggio competitivo non è l’algoritmo in sé, ma la capacità di umidificare la tecnologia con intelligenza relazionale, trasformando dati e procedure in decisioni sagge, inclusive e sostenibili. Dalle conversazioni quotidiane che svolgo con i direttori hr emerge una volontà comune: costruire organizzazioni capaci di gestire l’incertezza e di rimanere solide nell’era dei permacambiamenti. In un contesto in cui la velocità delle decisioni è sempre più cruciale, le competenze che servono non sono solo tecniche ma anche comportamentali – e richiedono coraggio, capacità di assumersi responsabilità e di guidare con visione.
Oggi è forte la consapevolezza che le persone sono le colonne portanti dell’impresa..
Continuo a sentire – quasi come un mantra – che l’hr “non è più funzione amministrativa ma è diventato strategico”. Questa lettura, almeno nelle aziende medio-grandi con cui lavoro ogni giorno, è ormai superata: l’hr è già al centro. Non serve più rivendicarlo, serve cambiare narrativa. L’hr oggi è nel cuore di tutte le conversazioni che contano: trasformazioni organizzative, sostenibilità, attrazione e sviluppo dei talenti, gestione dei rischi reputazionali. E soprattutto è protagonista nelle attività straordinarie, come operazioni di m&a, ristrutturazioni e grandi progetti di change management, dove il successo dipende dalla capacità di gestire culture diverse, integrare persone e competenze e ridisegnare processi. Tutto questo è necessario per dare una lettura più profonda e concreta sull’importanza delle persone e sulla capacità di armonizzare e valorizzare le diverse generazioni e culture che compongono l’impresa. Senza questa regia, il rischio è che le persone vengano sopraffatte da mere logiche finanziarie e che le trasformazioni perdano il loro fattore umano, compromettendo i risultati nel lungo periodo. Per imprimere davvero la giusta frequenza organizzativa allineata al business, l’hr deve avere il coraggio di sedersi al tavolo dell’amministratore delegato, dei fondi di investimento e degli stakeholder strategici. In un’era di permacambiamenti, questo non è un atto simbolico: è la condizione per guidare le decisioni che impattano sul capitale umano, anticipare i trend e trasformare la funzione in leva di creazione di valore per l’intera impresa.
Questo vuol dire nuove sensibilità e confini nell’engagement fra impresa e persone. Quali?
L’engagement non è più un insieme di benefit standard, ma un patto bidirezionale basato su fiducia e reciprocità. La lettura socio-economica ci racconta un calo demografico, un cambiamento di valori e, soprattutto nelle giovani generazioni, una minore paura di non avere un lavoro fisso: lo raccontano fenomeni come il quiet quitting o la great resignation, espressione di una generazione che non resta se non si sente valorizzata o allineata al purpose. Se da un lato vediamo questo comportamento tra i giovani, viviamo due estremi: nelle fasce sopra i 48 anni emerge la necessità di mantenere alta la produttività, la paura di perdere competenze e di dover rimettersi in gioco in contesti sempre più dinamici. Ma anche qui la ricetta è la stessa: lavorare sull’engagement e quindi sulla loro employability, accompagnando ogni generazione a sentirsi utile, aggiornata e parte del progetto aziendale. Non bastano un piccolo aumento di stipendio o una promessa a lungo termine: le persone – come i tempi che viviamo – vogliono risposte veloci e non hanno più pazienza di aspettare. Hanno bisogno di sentirsi realmente valorizzate. Questo scenario si traduce in continue sperimentazioni da parte delle imprese per creare formule personalizzate e creative per attrarre, trattenere e sviluppare talenti. La parola che traduce tutto questo è proprio engagement: la sfida più grande delle organizzazioni nell’era dei permacambiamenti, che richiede coraggio per ridisegnare politiche, leadership e sistemi premianti in modo più inclusivo, flessibile e autentico.
L’avvento dell’era AI accelera l’esigenza di una definizione dei confini fra persone e macchine?
Più che di “confini” – che evocano differenze e rischi di conflitto – preferisco parlare di integrazione. Non è una guerra tra tecnologia e uomo, non c’è da “accaparrarsi uno spazio” nelle organizzazioni: se alimentiamo questa retorica amplifichiamo la paura naturale di vivere in un’era di sostituzione. L’Ai è straordinaria e oggi ne vediamo solo una dimensione, perché non siamo ancora in grado di comprendere fino a dove potrà arrivare. Proprio per questo bisogna conoscerla, testarla, includerla nei processi di semplificazione ed efficienza delle aziende, senza delegarle in modo acritico scelte che richiedono responsabilità. L’Ai deve essere guidata dall’essere umano, così da diventare un alleato capace di amplificare il valore dell’uomo – la sua intelligenza, la sua creatività, la sua capacità relazionale – e non un sostituto. In questo senso, la sfida dell’hr e dei manager è culturale: formare persone e leader per comprenderla e usarla, non subirla, trasformando paura e resistenza in opportunità di crescita.
Qual è il modello di relazione con la comunità di Hcr Group
In un mondo del lavoro dove non troviamo spazi di defaticamento, dove spesso ci sentiamo soli e chiusi nell’autoreferenzialità, come criceti sulla ruota, la community e le sue logiche non solo ti aiutano a costruire modelli di reskilling ed engagement naturali, ma diventano un luogo di ancoraggio e di spinta. Hrc non è semplicemente una piattaforma o un calendario di eventi: è un ecosistema vivo, costruito su relazioni autentiche. Il nostro dna differenziale è la relazione come asset competitivo: migliaia di hr che non si limitano a scambiarsi best practice, ma co-creano soluzioni, testano progetti, misurano risultati e condividono ciò che funziona e ciò che no. In un mondo di permacambiamenti, la Community diventa un laboratorio continuo: qui i direttori e i manager hr trovano uno spazio per confrontarsi con coraggio, sfidare vecchi paradigmi e generare intelligenza collettiva, mentre i junior trovano uno spazio autentico per crescere e creare relazioni professionali per la loro crescita e futuro. È un modello a rete, orizzontale, che trasforma la somma delle esperienze individuali in innovazione concreta per il settore. In questo senso, Hrc restituisce al mondo hr la sua dimensione generativa: non solo gestire risorse, ma costruire comunità capaci di influenzare la cultura del lavoro e, di conseguenza, il futuro delle organizzazioni.
L’articolo Hr nell’era dell’IA: perché il vero vantaggio competitivo resta umano è tratto da Forbes Italia.