“Ho testimoniato su stupri e crimini di guerra in Congo. Adesso ricevo minacce e vengo screditato”: il racconto del missionario Silvano Ruaro
- Postato il 15 dicembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“‘Te la senti di parlare davanti a me? Non hai vergogna?’. ‘No, tu sei come il mio papà!’, mi ha risposto lei, 13 anni. Allora ho accettato di fare da interprete e tradurre il racconto che questa mia alunna faceva a una operatrice umanitaria di Medici Senza Frontiere a cui descriveva la violenza subita da 5 soldati. Io traducevo e piangevo. Ecco, è per lei che ho accettato di testimoniare. Per lei e per tutte le ragazze e le donne che in quei terribili giorni del 2002 sono state violate, senza mai aver avuto giustizia”. All’inizio aveva rifiutato la convocazione: “Pensavo che andasse al di là del mio ruolo di prete. Ma poi mi sono ricordato di quella ragazzina. E mi sono detto: se nessuno ha il coraggio di esporsi, non si uscirà mai da questa spirale di impunità sfacciata”. Chi parla a Ilfattoquotidiano.it è padre Silvano Ruaro, 87 anni, missionario dehoniano, una vita in Repubblica Democratica del Congo, dove è arrivato nel lontano 1970. In questi giorni si è suo malgrado ritrovato al centro di polemiche che dalla Francia giungono fino al Congo. La sua deposizione ha infatti sparigliato le carte in un importante processo che si sta svolgendo a Parigi e che vede imputato un ex “signore della guerra”, Roger Lumbala.
Per l’accusa, Lumbala, oggi 67 anni, durante la seconda guerra del Congo (1998-2003) era stato a capo di un’operazione nota come “Effacer le tableau” (“fare tabula rasa”) che fra l’ottobre 2002 e il gennaio 2003 seminò il terrore nella regione nordorientale del Paese: saccheggi, esecuzioni sommarie, stupri sistematici, torture, sparizioni forzate, persino cannibalismo forzato. Lumbala, giudicato in base al principio della “giurisdizione universale”, rifiuta di comparire, non riconosce la corte e nemmeno le accuse a lui rivolte, affermando che all’epoca era a capo di un movimento politico e non aveva uomini armati.
È in questa delicata situazione che la deposizione di padre Ruaro è divenuta cruciale: le sue tre ore di racconto, preciso e meticoloso, hanno sollevato dubbi sull’impianto accusatorio e di conseguenza anche polemiche, sia Oltralpe che in Congo. “Io ho raccontato solo e soltanto ciò di cui sono stato testimone diretto – spiega nel corso dell’incontro con Ilfattoquotidiano.it – Dicono che ricordo male per via dell’età, ma certe cose, quando le vivi, non le dimentichi più. E poi le ho riferite da subito, ci sono articoli di vent’anni fa in cui ripetevo esattamente lo stesso. E anche nel 2021, quando la Gendarmerie francese mi aveva già chiamato per un colloquio informale, avevo raccontato quello che ho visto, tanto che lo stesso giudice settimana scorsa ha affermato che la mia deposizione è ‘coerente’ con quella del 2021”.
Un racconto particolareggiato, che ripete con date e dettagli. Il punto cruciale è uno: “Il giorno dell’assalto alla missione – era il 12 ottobre – uno dei miliziani mi disse a bassa voce ‘Padre, non faccia l’eroe, per quattro giorni abbiamo il permesso di fare tutto ciò che vogliamo, senza dover rendere conto. È così che ci pagano. È Bemba che ce lo ha detto’. Anche gli altri miliziani che scorrazzavano per il villaggio e la missione dicevano ‘Siamo gli uomini di Bemba‘”. E ancora: “A capo dell’operazione nella nostra missione di Mambasa, saccheggiata e occupata per tre mesi, c’era il colonnello Freddy Ngalimu. Era lui che dava ordini e firmava documenti come colonnello dell’ALC, il gruppo armato di Bemba, e non dell’RCD-N di Lumbala”. Ecco, secondo padre Ruaro gli uomini che per tre mesi hanno messo a ferro e fuoco la sua missione e tutta la provincia rispondevano a un altro uomo: Jean Pierre Bemba. Già condannato dalla Corte Penale internazionale per i crimini atroci che i suoi uomini avevano commesso in Repubblica Centrafricana, Bemba ha scontato nove anni di carcere all’Aja. Quando è uscito, è tornato in Congo ed è rientrato in politica. Oggi è vicepremier e ministro dei Trasporti dopo esser stato ministro della Difesa. Un pezzo da novanta. E infatti dal Congo sono arrivate diverse telefonate preoccupate: “Silvano, stai attento. I nomi che citi sono pericolosi, non tornare qui. Certo che sappiamo, qui tutti stanno seguendo il processo di Parigi”.
E così padre Ruaro si ritrova tra due fuochi: da un lato il pesante rischio a cui si è consapevolmente esposto testimoniando e facendo nomi, dall’altro i detrattori che lo tacciano di fare il gioco di Lumbala. “Io ho detto ciò che ho visto e vissuto – ribadisce – e l’ho fatto per le donne vittime di violenza. Non posso dimenticare quel colonnello che indicava via via le ragazze per strada e se le faceva portare in stanza”, conclude con un misto di amarezza e disgusto. “Se ciascuno facesse la sua parte, si potrebbe mettere un freno a questa impunità dilagante. Lo devono sapere che prima o poi saranno chiamati a rispondere. Magari dopo vent’anni, ma questi criminali dovranno rendere conto delle atrocità commesse sulla gente indifesa”.
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