Hamas, tra lusso e scorte armate i leader sono in fuga dalla loro stessa guerra
- Postato il 7 settembre 2025
- Di Panorama
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Le cronache dal Medio Oriente raccontano come i leader dei gruppi armati palestinesi che vivono all’estero abbiano adottato misure di sicurezza sempre più stringenti. Scorte armate, protocolli di spostamento segreti e residenze protette sono ormai la norma. L’omicidio mirato di Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran il 31 luglio 2024 da un’operazione attribuita al Mossad, ha reso palpabile il rischio per questa élite politica, ma ha anche sollevato interrogativi sulla natura del loro potere e delle loro ricchezze. Haniyeh, ex capo politico di Hamas ed ex primo ministro dell’Autorità Palestinese, era diventato uno dei volti più riconoscibili della causa palestinese. In patria era descritto come leader vicino al popolo, figura simbolica capace di unire il discorso politico alla retorica religiosa della resistenza. Ma la sua uccisione a Teheran, lontano dalle rovine di Gaza, ha fatto emergere l’immagine di un dirigente che viveva ben distante dalle sofferenze della sua gente, protetto dai Pasdaran iraniani e circondato da ogni comfort. La sua eliminazione non ha solo colpito la catena di comando di Hamas: ha costretto tutto il gruppo dirigente a riorganizzarsi e a disperdersi ulteriormente, accentuando la percezione che il cuore del movimento non batta più nella Striscia, ma nei salotti dorati di Doha, Istanbul e del Cairo.
Le capitali della regione sono ormai il palcoscenico di una diplomazia sotterranea. Una fonte egiziana ha rivelato che Ziyad al-Nakhalah, segretario generale della Jihad islamica, è sotto stretta sorveglianza e che il Cairo avrebbe ricevuto pressioni per garantirgli una residenza stabile. In Turchia, alcuni dirigenti di Hamas e persino ex detenuti liberati nell’ultimo scambio di ostaggi si muovono oggi con restrizioni severe, frutto della crescente attenzione di Ankara a non diventare teatro di possibili operazioni israeliane. A Doha, capitale del Qatar, la dirigenza di Hamas vive blindata, con protocolli di sicurezza che impediscono persino gli spostamenti più ordinari. Le riunioni avvengono in località diverse, spesso comunicate all’ultimo momento, quasi fossero summit di capi di Stato.
Dietro queste misure si nasconde però un tema ancora più scomodo: i patrimoni miliardari accumulati dai leader palestinesi in esilio. Già prima della sua morte, Haniyeh era indicato come titolare di una fortuna che si aggirava sui quattro miliardi di dollari. A lui si affiancano Khaled Mashal, storico capo del Politburo, e Mousa Abu Marzook, veterano della diaspora di Hamas, entrambi accreditati di ricchezze altrettanto impressionanti. Complessivamente, le fortune dei vertici politici del movimento supererebbero gli undici miliardi di dollari. Non si tratta solo di numeri: sono patrimoni che si traducono in ville di lusso, investimenti immobiliari in Turchia e nei Paesi del Golfo, società di facciata e conti all’estero.
A completare il quadro c’è Zaher Jabarin, oggi a capo delle finanze di Hamas, che dalla Turchia controlla un portafoglio da centinaia di milioni di dollari, frutto di operazioni opache che intrecciano donazioni, attività commerciali e reti di copertura. È il custode della cassa del movimento, un ruolo che conferisce potere e influenza pari a quello dei leader politici.Le origini di queste ricchezze sono note: aiuti esteri provenienti soprattutto dal Qatar e dall’Iran, fondi che in teoria dovrebbero sostenere la popolazione di Gaza ma che spesso si disperdono lungo circuiti opachi; investimenti immobiliari e attività commerciali create all’estero per generare entrate autonome; contributi raccolti dalla diaspora attraverso associazioni caritative che, in alcuni casi, sono finite sotto inchiesta in Europa e negli Stati Uniti per legami con il finanziamento del terrorismo. Il contrasto con la realtà della Striscia è evidente. A Gaza mancano beni di prima necessità, gli ospedali faticano a funzionare, intere famiglie sopravvivono tra macerie e assedio. Nel frattempo, i leader che dovrebbero rappresentare quella stessa popolazione vivono in sicurezza, lontani dal conflitto, e possono contare su ricchezze da oligarchi. Chi resta nella Striscia paga il prezzo più alto, mentre chi vive all’estero può permettersi di presentarsi come martire della causa con la tranquillità garantita da scorte armate e conti in banca milionari. Eppure, nonostante le prove, non mancano in Occidente e nel mondo arabo coloro che continuano a sostenere Hamas come se fosse il baluardo della purezza rivoluzionaria, chiudendo gli occhi davanti all’evidenza di una casta privilegiata che ha trasformato la cosidetta “resistenza” in un business personale. Difendere chi predica il sacrificio tra le macerie e intanto vive da miliardario all’estero non è un atto di solidarietà, ma il più grande favore che si possa fare a chi sfrutta la tragedia palestinese per continuare a vivere nel lusso.