Guerra in Sudan, all’origine del conflitto: schieramenti, appoggi internazionali e le miniere d’oro che fanno gola | lo scenario
- Postato il 3 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Una donna che abbraccia i suoi tre figli è inginocchiata a terra. Davanti a lei un miliziano delle RSF che la filma mentre le tira dei calci. Poi, come se nulla fosse, esplode dei colpi di mitraglia e mette fine alla vita dei bambini e della madre. È tutto registrato. A El Fashir, capitale del Darfour settentrionale, rimasta sotto assedio da 18 mesi da parte delle Forze di Supporto Rapido (RSF), ostili al governo, le atrocità sono state documentate e caricate sul web dagli stessi miliziani che le hanno compiute. Mentre dallo spazio, foto satellitari rilevano chiaramente enormi pozze di sangue sparse per la città finita nelle mani di questi ribelli. Sono centinaia gli abitanti uccisi sommariamente dal RSF, milizie fedeli al generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemedti”, uno dei due principali protagonisti di una guerra civile scoppiata nel 2023. Una guerra combattuta contro un ex alleato: il generale Abdel Fattah al-Burhan, di fatto presidente del Sudan.
Chi combatte sul campo: la faida fra generali
Le RSF – Rapid Support Forces, Forze di Supporto Rapido – nascono ufficialmente nel 2013 dalle ceneri delle famigerate milizie Janjawid, i “diavoli a cavallo” che nel 2003 si macchiarono di crimini di guerra in Darfur sotto il regime di Omar al-Bashir. Composte principalmente da uomini provenienti dalle tribù arabe nomadi del Sudan occidentale, le RSF furono usate da Bashir per schiacciare la rivolta delle popolazioni non arabe del Darfur. Dopo l’arresto di al Bashir, dittatore del Sudan dal 1989, le milizie passano sotto il comando di Hemedti. È lui che negli anni ha trasformato quella forza paramilitare in un esercito privato, finanziato attraverso il controllo di miniere d’oro e traffici transfrontalieri. Le RSF hanno persino inviato mercenari nei conflitti di Yemen e Libia, consolidando la propria potenza militare ed economica. Dall’altra parte, c’è l’esercito regolare guidato da Abdel Fattah al Burhan che nel marzo del 2025 è riuscito a riprendere il controllo di Khartoum dopo intensi scontri con gli uomini del RSF.
La lotta per l’oro
Dietro il conflitto si nasconde la lotta per il potere e per le risorse di un paese vasto e frammentato. Le RSF difendono la propria autonomia e i profitti derivanti dal controllo dei giacimenti d’oro del Darfur e del Kordofan – entrambe le regioni strategiche per i giacimenti minerari e per posizione di crocevia di traffici commerciali. Mentre l’esercito regolare vuole ristabilire l’autorità dello Stato centrale. Ma la guerra è anche una ferita etnica e storica lunga vent’anni. Nel 2003 quando il generale – presidente Omar al Bashir dà il via alla repressione del movimento di protesta che in quell’anno chiedeva maggiore rappresentanza del Darfur, regione confinante con il Ciad e la Repubblica Centrafricana. A monte, il senso di discriminazione e apartheid che parte della popolazione della regione, per la maggioranza non di etnia araba, percepiva da parte dell’autorità centrale. Il conflitto durerà 17 anni. Ci saranno fasi piu’ acute, dove la guerra si trasformerà nell’ennesimo genocidio giustificato dall’odio etnico. Sarà solo nel dicembre 2020 a Giuba, in Sud Sudan, che il Fronte Rivoluzionario del Sudan – composto da diversi gruppi ribelli che vogliono maggiore autonomia del Darfur – sigla un trattato di pace con il governo sudanese a Khartoum. I sudanesi manifestano per l’inizio della transizione democratica: vogliono un governo che porti la democrazia e che sia guidato da civili. Ci riusciranno, ma solo in parte. Si istituisce nel 2021 un esecutivo ibrido guidato da civili e militari. Dura qualche mese. I generali Abdel Fattah al-Burhan, capo delle forze armate e Mohamed Hamdan Dagalo, leader delle RSF, conosciuto come “Hemedti”, pongono fine a quel governo di coalizione con un colpo di stato. Poi comincia la lotta di potere fra i due che porterà alla nuova guerra civile.
Una striscia d’oro che porta a Dubai
L’RSF, guidate da Dagalo, viene sovvenzionato, secondo diverse inchieste del Guardian e di altre testate gionalistiche, dagli Emirati Arabi Uniti che sono interessati al controllo dei vasti giacimenti di oro in Sudan. Ad avvallare la tesi ci sono diversi armamenti dati dall’Inghilterra all’UAE, secondo un dossier riservato del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che sono stati trovati nelle mani dei miliziani del RSF. Mentre il governo libico di Haftar si sospetta faciliti i traffici di armi in sostegno di questa milizia armata che è interessata a gestire anche il traffico di migranti. Dall’altro lato, Burhan è sostenuto da diversi paesi a cominciare dall’Egitto che non vuole il caos al confine sud. Poi ci sono i partner commerciali come Russia e Cina che in Sudan vogliono aver accesso alle miniere d’oro e ai porti sul Mar Rosso.
Morti dimenticate
Fino ad oggi, l’ultima fase di questo conflitto ricominciato nel 2023 ha provocato la morte di 150mila persone. Mentre 12 milioni sono gli sfollati a causa della guerra. Quanto il Sudan sia abbandonato a se stesso e che la violenza di questo conflitto prevarichi ormai tutti gli schieramenti lo ha denunciato anche Amnesty International. “Tutte le parti del conflitto hanno continuato a commettere gravi violazioni – si legge in un Dossier del 2024 dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani – e abusi del diritto internazionale dei diritti umani, nonché violazioni del diritto internazionale umanitario… milioni di persone sono sfollate internamente o rifugiate all’estero… l’impunità ha persistito”.
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