Grenoble, la città verde diventata una polveriera: clan, sparatorie e droga all’ombra delle Alpi

  • Postato il 20 aprile 2025
  • Di Panorama
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Raffiche di kalashnikov in pieno giorno, sull’autostrada che da Grenoble punta verso Torino: un omicidio spettacolare che per le sue modalità ha scioccato la Francia. Il nome della vittima a molti ormai non diceva nulla, ma era l’ultimo capoclan della malavita italiana nel capoluogo alpino, Jean-Pierre Maldera.


Si è chiusa così, poche settimane fa, una lunga vicenda criminale. Ce n’è però un’altra che ha i colori dell’emergenza
. C’è da dire che a Grenoble si vive bene. Soprattutto in questi giorni, con una primavera già calda, i bar con i tavolini all’aperto, le passeggiate sul lungofiume e i turisti che si mescolano con manager eco-friendly, ricercatori e studenti venuti da ogni parte del mondo. Funziona un campus universitario da 40 mila studenti, su una popolazione di 150 mila abitanti. Il sindaco, Eric Piolle, guida da undici anni una coalizione rosso-verde e va fiero della situazione culturale e ambientale della città… Eppure, in pieno centro, nella zona di rue Hoche, si vende droga alla luce del sole: «È un punto nevralgico, quello. Perché è facilmente accessibile e gli spacciatori ci arrivano dai quartieri» spiega a Panorama Eric Vaillant, procuratore di Grenoble fino allo scorso febbraio. «D’altra parte è una città un po’ anomala. Con un nucleo centrale piccolo e poi, molto velocemente, ci si imbatte nelle «torri», quei grandi blocchi di appartamenti, e si ha l’impressione che la periferia sia dentro la città. E c’è il tram che va ovunque, quindi anche i trafficanti circolano senza problemi, ora anche con i monopattini. È poi evidente che Grenoble sia un’area con un grosso bacino d’utenza».

Il Comune è gemellato con Corato, una delle principali fonti di immigrazione: si dice che vivano più coratini qui che in Puglia. L’immigrazione italiana è una storia antica, nel primo Dopoguerra si fece intensa: famiglie di operai che si ammassarono inizialmente in rue Saint Laurent, zona poco felice schiacciata com’è tra fiume e montagna.
Di quella «Little Italy» oggi nel capoluogo alpino resta una lunga sfilata di ristoranti sul lungofiume che servono la nostra cucina. Da Corato veniva anche la famiglia Maldera: il padre, Vincent, decorato con la Legion d’onore per l’attività nella Resistenza, aveva reti sia in Francia sia in Italia. Da lui i figli, Robert e Jean-Pierre, hanno preso e appreso molto. Adattando però le tecniche paramilitari ad altri scopi. «Gli italiani avevano una manovalanza più numerosa, e poco alla volta hanno sostituito i corsi e i gitani» racconta Eric Merlen, già giornalista d’inchiesta, autore di libri e documentari sui clan di Grenoble e referente dell’Osservatorio geopolitico delle droghe e della Commissione antimafia francese. I Maldera fino a qualche anno fa erano i più temuti e rispettati. Estorsioni, prostituzione, poi slot machine, truffe e altro, passando per qualche omicidio. Poi Robert è scomparso nel nulla, dieci anni fa. E con l’assassinio di Jean-Pierre – il 12 marzo scorso, appunto in autostrada – si è chiusa una storia già vecchia.

I clan degli «italo-grénoblois» non facevano parlare di sé da anni: sono stati progressivamente sostituiti dalle bande magrebine fortemente radicate nelle «cité», i quartieri difficili. Dove la vita scorre relativamente normale, fatta anche di generosità e un volontariato attivo, ma è interrotta da sparatorie sempre più frequenti e asfissiata dalla povertà e dal controllo dei clan. Che guadagnano soprattutto con la droga. La carriera inizia presto: «Ragazzini di 14-15 anni incassano 50 euro al giorno per segnalare ogni movimento» dice Merlen. «Poi è una catena: intervengono i più grandi, sui 18 anni, pagati 100 a giornata. Poi loro, se vuoi droga, ti portano da un altro ragazzo, che viene pagato sui 200 euro al giorno. A sua volta, questo te ne presenta un altro ancora che chiede che tipo di roba vuoi, prende i soldi, va dallo spacciatore e finalmente effettua la consegna».

Meccanismi oliati che si ripetono su una ventina di «piazze»: rendono più di 300 mila euro al giorno. Una decina di milioni al mese. E non si nascondono: ogni milione accumulato viene celebrato con i fuochi d’artificio. Persino quando nel febbraio scorso il ministro dell’Interno francese Bruno Rétailleau arringava le forze di polizia, un video postato sui social mostrava scene di spaccio a due isolati dalla caserma… Poi ci sono incursioni spettacolari, come l’auto lanciata nel febbraio scorso contro la nuova biblioteca nel quartiere Mistral, data alle fiamme. Un messaggio chiaro: «Il quartiere è nostro».
I clan si conoscono e a volte si alleano, si intrecciano persino matrimoni pacificatori, ma lottano pure per il controllo del territorio. In rapporto alla popolazione ci sono ormai più regolamenti di conti che a Marsiglia: una ventina di sparatorie nei primi dieci mesi del 2024, già raggiunta nei primi tre mesi di quest’anno. Senza contare la granata lanciata in un bar, con 15 feriti.

È una guerra alimentata da diversi fattori, secondo Vaillant: il principale sarebbe l’uccisione di Mehdi Boulenouane nel maggio 2024. Era ritenuto il caïd, il boss della centrale di spaccio di Mistral. Scarcerato e raggiunto dai sicari appena due mesi dopo, alla periferia di Parigi: in strada, in pieno giorno. Due anni fa erano anche stati liberati un paio di trafficanti un po’ più anziani che hanno ricostituito le loro bande e tentano di riprendersi una porzione di città. Gli arresti non sono rari, e nemmeno le condanne. Ma destabilizzano. «Per esempio, nel novembre 2023 abbiamo spedito in galera i principali responsabili della grossa centrale di spaccio dell’Alma. Subito dopo si è verificata una serie di sparatorie in quella zona». La centrale della droga, resa così più fragile, iniziava a far gola ad altre bande. «Il traffico di stupefacenti è molto remunerativo e quindi gli appetiti sono feroci e le persone vogliono prendersi la loro fetta a qualunque costo, con una violenza efferata, anche usando dei minori per gli assalti».

Ancora più inquietanti sono gli intrecci: in carcere stringono rapporti con altri gruppi, e nei quartieri alcuni imam si lasciano coinvolgere. «Il fatto è che sono tutti legati da un’origine etnica, geografica, religiosa» aggiunge Merlen. «Non bisogna generalizzare, però spesso il primo posto in cui viene nascosta la droga è in casa di un religioso, o anche in una moschea. Ci sono reti wahabite: per esempio, Khaled Kelkal (la mente di gravi attentati in Francia del 1995, ndr) a un certo punto era ospite di un’associazione wahabita qui a Echirolles. Se poi pensiamo agli attentati in Francia del 2015, dalle inchieste risulta che i sospettati di terrorismo erano tutti già stati identificati da ragazzini, coinvolti nelle sommosse di quartiere del 2005». Dunque, le bande dei quartieri di Grenoble, prive di una struttura centralizzata, possono però sfruttare reti capaci di coordinarsi. Ed è un pericoloso cocktail di soldi, ideologia e disperazione.

Autore
Panorama

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