Gloria a Bach. La “Messa in si minore” a Santa Cecilia
- Postato il 16 novembre 2024
- Di Il Foglio
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Gloria a Bach. La “Messa in si minore” a Santa Cecilia
"All’attacco del Kyrie, mi si è aperto il cielo davanti”. Così Papa Benedetto XVI ricordava quando, da bambino, assistette in ginocchio con il fratello Georg all’esecuzione della Messa in si minore di Johann Sebastian Bach. Anche in questi giorni il cielo sembra essersi aperto dalle parti di viale De Coubertin, dove l’Accademia nazionale di Santa Cecilia ha proposto la partitura sotto la direzione di Reinhard Goebel, con le voci di Damiana Mizzi (soprano), Catriona Morison (mezzosoprano), Benjamin Bruns (tenore) e Christian Immler (basso).
“Apre il cielo” si diceva, ma anche la mente e il cuore degli ascoltatori. La Messa in si minore è una vera cattedrale di suoni, voci, linee, incastri: due ore di musica costruita su più livelli e stili diversi. Bach, in questo capolavoro, raccoglie il frutto di secoli di repertorio, proprio e altrui – sacro, orchestrale, vocale – e lo condensa in quella che è la messa cattolica per eccellenza. Un lavoro monumentale, iniziato nel 1724 e completato nel 1749, un anno prima della morte del Kantor. Un testamento spirituale e musicale, un affresco che rivela le straordinarie capacità compositive di un musicista più moderno di tanti oggi in attività.
L’opera si compone di ventisette sezioni indipendenti, ciascuna costruita su temi melodici distinti. Vi si incontrano grandi cori barocchi con fughe, sezioni simili ai mottetti di Palestrina, spunti di canto gregoriano, arie e duetti nello stile operistico ornamentale, fino al più moderno stile “galante” della metà del XVIII secolo. Si trovano inoltre sezioni con strumenti “obbligati” e accompagnamenti di “continuo”, tutti intrecciati con maestria per formare un insieme straordinariamente coeso. “Uno splendido architetto della musica” lo definì ancora Benedetto XVI in occasione di un concerto a lui offerto nell’agosto 2011, sottolineando la capacità di Bach di esprimere una razionalità “splendente” e al contempo di comunicare verità profonde e una gratitudine immensa verso Dio.
Quando si esegue la musica di Bach con strumenti moderni, sorge inevitabilmente la questione della prassi esecutiva. Reinhard Goebel riesce a conferire alla compagine ceciliana un “suono barocco”, con poco arco e vibrato, e un fraseggio ben scandito. Tuttavia, questa scelta sacrifica in parte la varietà dinamica, che sarebbe stata facilmente realizzabile dato l’elevato livello dell’orchestra e dei suoi solisti. Notevole è l’attenzione dedicata alle parti più “nascoste”, plasticamente inserite nella fitta trama della scrittura polifonica. Orchestra e voci respirano insieme: Goebel, pur lasciandosi talvolta andare a movimenti eccessivi, tiene saldamente in mano una partitura che, se non conosciuta in ogni suo più recondito dettaglio, può facilmente sfuggire al controllo. Il direttore tedesco mette in campo tutta la sua esperienza, non perdendo mai un attacco, evidenziando vistosamente le cadenze finali e talvolta usando il corpo per guidare l’insieme. La sua interpretazione scorre in modo arioso, ricordando le letture di Philippe Herreweghe più che quelle rigorosamente filologiche di John Eliot Gardiner, entrambe diverse e meravigliose.
Un’attenzione particolare merita il coro, istruito da Andrea Secchi. Chiamato a sostenere una prova impegnativa sia fisicamente sia tecnicamente, il coro supera brillantemente anche i passaggi più complessi. Ed è un peccato che si parli poco di questa eccellente formazione, che negli anni ha dimostrato una grande maturità nell’affrontare repertori diversissimi.
I solisti si distinguono per sicurezza, buona pronuncia e perfetta integrazione nell’impianto generale, che tuttavia vede protagonisti soprattutto orchestra e coro. Il pubblico apprezza il risultato, anche se alla fine lascia in fretta la sala, forse per colpa del ritmo della Capitale. Eppure, in questo freddo improvviso d’inverno, sembra risplendere il cielo bachiano, che si scopre essere molto più umano di quanto si pensi.
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