Giustizia: perché sempre più magistrati dicono sì alla riforma
- Postato il 30 novembre 2025
- Di Panorama
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Portate i sali agli indomiti fustigatori. Sembravano uniti come un sol uomo. Invece, illustri e favorevoli alla riforma della giustizia si sfilano. Alzano la testa per dire sì alla separazione delle carriere e i suoi derivati. Spalleggiano questo governo di centrodestra, oibò. Carlo Nordio aveva fiutato l’aria: nelle segrete stanze, rivelava, «molti confessano di essere perfino aperti al sorteggio». Adesso rompono gli indugi. Del resto, aggiunge il ministro della Giustizia, «ogni magistrato sa che la sua carriera dipende dal Csm e viene condizionata dalle correnti». Per chi non si intruppa, la vita si fa dura.
La battaglia campale del referendum incombe. Si voterà entro la fine di marzo. Nasce una nuova corrente ideale: Magistratura riformista. Sono i vessilliferi che non ti aspetti. Quelli che, forse, convinceranno anche i riottosi. «Nessun tacchino si candida al pranzo di Natale» spiegava l’immaginifico Guardasigilli trevigiano, una gloriosa carriera da toga alle spalle. Invece, tanti galli alzano la cresta. Antonio Di Pietro, per esempio. Una leggenda vivente. Sembrava che fosse ormai totalmente dedito all’agricoltura nella natìa Montenero di Bisaccia, in Abruzzo. Invece, è diventato l’alfiere della Fondazione Einaudi.
Il caso Di Pietro
Che smacco. I pm tricolore, cresciuti masticando le imprese dell’eroe di Mani Pulite, si agitano: «Tu quoque?». Proprio lui. «Voterò sì», scandisce. «Io sono sempre stato favorevole, fin dal 1989, alla riforma del sistema inquisitorio e accusatorio». Disperano, rielaborando la sua iconica esclamazione: ma che c’azzecca con quei manigoldi di centro destra? «All’epoca non c’era ancora Berlusconi e non ci aveva messo il cappello», risponde lui. Vuole «valutare questa riforma non perché l’ha fatta il centrodestra». Gli ex colleghi, poi, li conosce bene. Rivela che, ad agitare gli animi, è il prosaico timore. «La vera ragione per cui l’Associazione nazionale magistrati si oppone è una: la riforma prevede la costituzione dell’Alta Corte disciplinare e il sorteggio. Due punti sui quali è ferocemente contraria».
Adesso i supposti illeciti dei magistrati sono valutati dalla sezione disciplinare del Csm, con risultati sconfortanti: il 95 per cento dei procedimenti finisce in nulla. E le restanti sanzioni sono quasi simboliche. Per questo, la riforma trasferisce questa funzione a un’Alta corte. «Quando un giudice domani dovesse sbagliare, finalmente se ne assumerà anche la responsabilità», dice la premier, Giorgia Meloni. Mentre il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, assicura che bisogna diabolicamente perseverare: solo un togato può giudicare un togato.
I nuovi “eretici” della magistratura
Come ai bei tempi, insomma, Tonino sembra non aver perso il fiuto investigativo. Un altro beniamino progressista, dal nome perfino riecheggiante, è Piero Tony: 45 anni con la toga, già procuratore capo a Prato. Ha scritto un libro contro la gogna giudiziaria: Io non posso tacere. Sottotitolo: Confessioni di un giudice di sinistra. E adesso, pure lui, si schiera a favore. Parte da un indubitabile assunto, scansato dai supposti rei con superbia: «Credibilità e autorevolezza del giudice sono in continuo calo». La separazione delle carriere, dunque, sarebbe «il primo grande ineludibile passo, che sarebbe stato necessario fare in sede costituente».
Tony contro gli argomenti anti-riforma
Tony confuta pure le avverse argomentazioni degli ex colleghi. A partire dalla più sbandierata e sgangherata. Dicono che i pm diventerebbero proni all’esecutivo. «Confermando di non avere neanche letto la riformulazione dell’articolo 104 della Costituzione», che rimarca l’autonomia dei magistrati. Aggiunge: «Ripetete che queste idee sono figlie di noti massoni e politici pregiudicati». Esorta: «Con un minimo di obiettività, potreste ricordare che la separazione delle carriere era auspicata, tra i tanti, dal costituente Piero Calamandrei e, più di recente, da Giovanni Falcone». E, a dire il vero, persino da Nicola Gratteri: il risoluto paladino del no, il fuoriclasse che fa palpitare i gattopardi, il custode dell’ancien régime. «L’unica via d’uscita allo strapotere delle correnti è il sorteggio del Csm», informava nel 2021, davanti a una glaciale Lilli Gruber, su La7.
Per carità, forse pure Voltaire pensava che solo i cretini non cambiano mai idea. E il procuratore di Napoli non lo è affatto. Ma la foga di confutare, adesso, diventa irrefrenabile. Sempre in diretta televisiva, per avvalorare le sue tesi, si avventura in un’inesistente citazione di Falcone. Mentre il giudice ucciso dalla mafia, per tabula, nel lontano 1991 diceva: «Giudici e pm devono essere strutturalmente differenziati per un processo accusatorio vero».
I procuratori che sparigliano
Tre noti parigrado di Gratteri, però, decidono di sparigliare. Il procuratore capo di Parma, Alfonso D’Avino, è favorevolissimo. Non solo alla separazione delle carriere. Ma pure al sorteggio per il Csm, «la parte migliore della riforma», e l’Alta Corte: «Se la magistratura godesse ancora del prestigio di cui godeva ai tempi di Tangentopoli, forse non ce ne sarebbe stato bisogno. Invece, l’uno e l’altro sono diventati degli strumenti necessari, perché il correntismo ha generato nella gente il convincimento che qualunque nefandezza viene sempre coperta dal Consiglio superiore».
Un altro impavido bastiancontrario è Antonio Gustapane, procuratore capo di Varese: la separazione delle carriere è il «logico completamento del modello accusatorio, introdotto dal codice di procedura penale nel 1988». Nessun contenuto «eversivo», dunque. Né, tantomeno, controllo governativo: un rischio che non esiste «neppur vagamente».
Mentre l’omologo padovano, Antonello Racanelli, già nel 2023 esortava i colleghi a fare «un esercizio di sano realismo politico». Insomma, bisognava «prendere atto della realtà». Una schiacciante maggioranza parlamentare vuole riformare la giustizia? La guerra dell’Anm, obietta Racanelli, è «un suicidio». Sarebbe stato assai più utile dialogare.
E Giacomo Rocchi, presidente di sezione della Corte di cassazione, spiega: «La riforma rende il giudice davvero terzo agli occhi dei cittadini, mentre il sorteggio purifica la magistratura dall’ipoteca dalle correnti». Sì, ma l’indipendenza? «Viene ribadita in modo inequivocabile».
Gettano il cuore oltre l’ostacolo anche alcuni membri del Csm. Come il giudice veronese Andrea Mirenda: eletto straordinariamente nel 2022 proprio per sorteggio, è favorevolissimo alla sua perpetua introduzione. Non c’è nulla di più democratico, argomenta, che venire scelti «senza prima doversi genuflettere a una corrente».
S’è convinto persino Michele Vietti, ex sottosegretario alla Giustizia e vice presidente a Palazzo dei Marescialli: «Il potere dei pm, nel tempo, è cresciuto. C’è il rischio che l’accusa si espanda sempre di più».
I “senatori” della giustizia
Poi c’è una terna di veneratissimi maestri. Le loro garbate riflessioni diventano un colpo ferale. L’ultimo a esternare è stato Augusto Barbera, già presidente della Corte costituzionale e parlamentare della sinistra. Ebbene, spiega: la nuova legge «è divenuta inevitabile dopo la cosiddetta riforma Vassalli», che smantellò il codice autoritario e introdusse un incompleto sistema accusatorio. Sarebbe il compimento: pm e giudici distinti, con diversi Csm, per garantire maggiore terzietà. Potrebbe aiutare anche a ridurre «la sgradevole natura dei gruppi di pressione e potere».
Anche per Cesare Mirabelli, altro ex presidente della Consulta, il sorteggio «è una soluzione diretta a rompere il dominio delle correnti sui sistemi elettorali». E non esiste nemmeno il rischio, aggiunge, che i pm finiscano sotto il potere dell’esecutivo.
S’arriva infine a Sabino Cassese, già giudice della Corte costituzionale e ministro del governo Ciampi. La riforma «è una decisione quasi obbligata, un atto dovuto, maturata a lungo nella cultura giuridica italiana per assicurare ai cittadini la massima garanzia di imparzialità del giudice». Proprio lui. L’esimio giurista. Nel 2013 Pierluigi Bersani lo voleva persino sul Colle. Mutuando la celebre metafora dell’allora segretario del Pd, adesso è il vecchio Cassese a voler smacchiare i giaguari. Anzi, i gattopardi.