Giubileo dei Giovani: la meglio gioventù genuina, ambiziosa e senza rabbia
- Postato il 5 agosto 2025
- Di Panorama
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Cosa lascia il Giubileo dei giovani alla Chiesa, alla fede, all’Italia, al mondo? Quel che lasciò il Giubileo precedente, evento magnifico intorno a un Papa magnifico, i cui seguaci furono chiamati i Papa boys. Prima di rispondere alla domanda, vorrei dire due cose sull’evento, anzi vorrei esprimere due gioie. La prima è la gioia di un avvenimento positivo a livello mondiale, come pochi ormai se ne vedono, mosso dall’aspirazione a salvare il mondo, ma non solo nel segno del pianeta e dell’ambiente, ma del mondo abitato dagli uomini al centro del creato, e quindi la natura. Provate a farvi la domanda inversa: quanti sono gli eventi come questo che accendono speranza, destano fiducia, in cui si vede comunque all’opera il bene. Rari, più rari in Occidente. Per dirla in sintesi: questo è finalmente un evento contro nessuno, solo in favore dell’umanità e di ogni persona. «Te pare poco, dì, te pare poco?» avrebbe detto Franco Califano.
La seconda gioia era vedere, sentire, quei ragazzi. Lo hanno detto in tanti, e non ha molto senso ripeterlo. Ma dopo decenni di elogi della peggio gioventù, vedi finalmente qualcosa che evoca la meglio gioventù. Certo i migliori giovani non stavano solo qui, per fortuna o grazie a Dio, sono sparsi altrove, ma ci sono. Però vederli qui in tanti, insieme, accomunati da un desiderio di fede, da una volontà di cose grandi, per dirla col papa Leone XIV, è un bene incalcolabile. Da troppo tempo lo spettacolo è inverso: vedi raramente giovani sfilare insieme e quando succede il più delle volte sono masse arrabbiate, urlanti, carnevalesche, istupidite da slogan e modelli di vita. E ti consoli dicendo che non tutti sono così, ci sono altri che in disparte, da soli, studiano, lavorano, amano, si comportano in modo diverso. Con il Giubileo dei giovani vedi per la prima volta dopo un po’ di tempo una folla di giovani e non solo singoli individui che non vogliono diventare le protesi dei loro smartphone, che non vivono del solito gergo e delle quattro minchiate prefabbricate che fanno loro ripetere.
C’era persino a livello epidermico, un segno distintivo che mi piace sottolineare: quei giovani di Roma non erano tatuati, hanno ancora rispetto del corpo così come è dato, con tutti i suoi limiti. Per carità, non sto dicendo che i tatuati siano il male e i non tatuati il bene, ci sono mille ragioni per farlo, c’è modo e modo per tatuarsi, chi con un piccolo segno simbolico e chi invece diventa il cartellone pubblicitario di una sceneggiata o di un documentario sull’ambiente. Non si giudica mai una persona dalla pelle, e questo vale non solo per il colore della pelle che hai ricevuto in sorte ma anche dalla decisione di illustrare, affrescare, la tua pelle come un murales, un racconto mitico o altro. Però, detto questo, l’idea di ricreare la propria identità con un travestimento permanente della propria pelle e viceversa il proposito di lasciare come dio ti ha fatto, come mamma ti ha fatto, come natura ti ha fatto, è una piccola scelta di vita. Con tutti i distinguo e senza mai generalizzare su così poco, preferisco i ragazzi a pelle libera, rimasti quel che sono, reali, genuini, veri, seppure al primo stadio della verità.
Ma usciamo dalla piccola questione dei tatuaggi, per dire che sì, era una bella gioventù. E non c’è bisogno di essere credenti, cristiani, cattolici per dirlo; quando un ragazzo non ha il culto di sé stesso, non vive solo specchiandosi nello smartphone e nei suoi affluenti, quando si sporge, si espone, crede in qualcosa di superiore a lui, cerca l’incontro e la comunità, esprime già un senso positivo. Mentre vedevo loro, sentivo per le strade di un paese sardo cantare una ragazza che celebrava l’inno autocentrato della gioventù. Ripeteva: Io sono pazza di me, e tutta la canzone era un fare a meno degli altri, tantopiù degli amori, ma stare bene con sé stessi, autorealizzarsi e autocompiacersi e via dicendo. Che vita vuota, triste, insensata, stanno costruendo questi ragazzi che vedono, sentono, pensano solo sé stessi. I ragazzi giubilanti di Roma invece no, o perlomeno ci provano a non ridurre il loro mondo a questo.
Insomma, le due gioie che hanno suscitato quei giubilanti sono vere e tutt’altro che secondarie. E aggiungo che con papa Leone XIV si respira un’altra aria, senti che l’amor di Dio prevale sul messaggio socio-progressista, e ti fa piacere che ci sia lui e non il suo predecessore (pace all’anima sua). In giro si sentiva più Woytila che Bergoglio…
Ma poi torno alla domanda iniziale e all’esperienza del precedente Giubileo dei giovani e mi accorgo che alla fine ho parlato non di un mondo, di un popolo ma di un evento, cioè di qualcosa che avviene eccezionalmente, di rado. Si, probabilmente è la spia di un modo d’essere e di vivere, non è soltanto una festa, un’interruzione speciale della loro vita quotidiana. Ma resta che poi la desolazione, il deserto, riprende il sopravvento. Lo abbiamo visto nell’arco di questi venticinque anni, che poi sono il primo quarto di secolo del terzo millennio. Quell’immagine, quelle figure di speranza, sono state sommerse da ben altre immagini, ben altri flussi, ben altre tendenze.
Gli eventi non lasciano poi tracce, anche se possono essere la spia di percorsi privati di vita diversi; ma minoritari, purtroppo, e poco capaci di essere d’esempio e d’insegnamento per gli altri. Passata la festa, gabbato lo santo, diceva un proverbio popolare, ed è quello che avverti negli infiniti lunedì della vita, dopo quelle brevi parentesi domenicali. Difficile costruire, difficile ritrovare nella quotidianità quello spirito. Sì, episodi non mancano. Per esempio, e solo per restare nella linea del giubileo dei giovani, tra poco ci sarà il meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, che è da decenni un filo di quella continuità che si dipana nei giorni. E ci sono piccole oasi di conforto e di speranza in un oceano d’indifferenza, d’insofferenze, con vaste penisole di odio e di violenza. Il resto, mi rendo conto, va in un’altra direzione; la tendenza prevalente del mondo, dell’Italia, dell’Occidente, va in altra direzione, vive in altro modo: ha desideri, non speranze, ha calcoli, non ideali. E vive del giorno, non ha attesa più grandi, aspettative più alte. Insomma, lascia poco, il giubileo dei giovani. Ma quel poco è meglio del niente, è almeno un piccolo segno. Non dico accontentiamoci di quel poco; dico che da quel poco si deve partire.