Giovanni Sallusti: il sindacato nemico dei cittadini
- Postato il 25 novembre 2024
- Di Libero Quotidiano
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Giovanni Sallusti: il sindacato nemico dei cittadini
Per capire la natura del Partito Sfascista sezionato ieri da Libero, può essere utile un piccolo esperimento mentale. La storia non si ripete mai uguale a se stessa, ma non deraglia nemmeno mai da certe costanti di fondo. Annotiamo allora due citazioni celebri, e chiediamoci in quale si riconoscerebbe di più chi pensa e incarna oggi il sindacato nell'ottica sfascista-landiniana. Prima citazione: «Lo sciopero generale costituisce il mito nel quale si racchiude tutto intero il socialismo, ossia un'organizzazione d'immagini capaci di evocare tutti i sentimenti corrispondenti alle diverse manifestazioni della guerra ingaggiata dal socialismo contro la società moderna» (Georges Sorel, teorico del sindacalismo rivoluzionario). Seconda: «Noi siamo convinti che imporre alle aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida.
Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare» (Luciano Lama, leader pragmatico e riformista della Cgil).
La risposta, chiaramente, è già nella domanda: sostituite “guerra” con “rivolta sociale” nella citazione soreliana, e otterrete credibilmente un virgolettato di Landini a tiggì unificati nell'anno del Signore 2024. Sì, la sua Cgil (e in generale il sindacato piazzaiolo e sfascista) riecheggia molto di più l'anarco-sindacalismo d'inizio Novecento che la propria storia migliore del Dopoguerra, e questo testacoda cronologico e simbolico innesca almeno due conseguenze esiziali.
Anzitutto, siamo ormai alla cronica incomprensione da parte del sindacato delle dinamiche attuali del lavoro. E dire che la pandemia dovrebbe aver fatto acquisire anche ai più recalcitranti un'evidenza fattuale. Quella per cui l'unica “lotta di classe” esistente oggi ha molto più a che fare col liberismo che col marxismo: è la lotta (per usare la terminologia di un tal Gianfranco Miglio) tra “produttori” e “parassiti” (in senso tecnico, non morale).
Tra chi è condannato a generare da sé il proprio sostentamento (per cui il lockdown equivaleva ipso facto alla miseria) e chi lo ha garantito da altri, ivi compreso sotto forma di stipendio (per cui il chiusurismo poteva essere seriamente un'agenda di governo).
È evidente chi siano i “deboli” nel guazzabuglio contemporaneo: i primi. Le (spesso micro) partite Iva, gli artigiani in proprio, i commercianti di prossimità, il vasto e labilissimo mondo del lavoro autonomo, perfino i piccoli imprenditori che hanno la casa sopra lo stabilimento e attaccano prima del primo operaio. È l'oceano dei non-garantiti, che squaderna le ferite autentiche del mondo del lavoro del nuovo millennio. Le quali no, non corrispondono al ventisettesimo scatto in busta paga, busta che spesso coincide con un contratto a tempo indeterminato. Piuttosto, si chiamano rincorsa all'innovazione digitale (con l'irruzione dell'Intelligenza Artificiale che relega nell'irrilevanza anche i lavoratori intellettuali), concorrenza sleale subita da mondi che cavalcano la globalizzazione asimmetrica (Cina anzitutto), stretta bancaria, gigantismo burocratico, oppressione fiscale.
A tutto questo mondo, se va bene, il sindacalismo sfascista non dedica una sillaba. Se va male, lo ingabbia nella caricatura ideologica dell' “evasione”, una scomunica sommaria che investe frotte di lavoratori, specialmente giovani. L'ovvio effetto è il crollo di iscritti alla Cgil: 200mila in meno da quando si è insediato il rivoltoso Landini.
C'è poi una seconda incomprensione, che pare piuttosto una forma ostentata di menefreghismo: la sistematicità offensiva con cui si ignora la ricaduta dei grandi riti retorici sindacalesi, sciopero generale in primis, sui cittadini in carne e ossa, magari sprovvisti di tessera sindacale, ma pressati da esigenze più concrete del talk in prima serata dove simulare la Resistenza al governo fascista. Pendolari con salari medio-bassi, studenti che provengono dalle aree interne, lavoratori fuori sede, anche professionisti che vivono sull'Alta Velocità con scaletta di appuntamenti sparsa da una città all'altra. Se blocchi il Paese (e la doppietta sciopero ferroviario dei giorni scorsi-sciopero generale di venerdì prossimo va oltre, punta dritta alla paralisi degli italiani) non sgambetti l'esecutivo sgradito, congeli le loro vite. Tocca anche qui tornare a un nume tutelare del sindacalismo italiano, nientemeno che Giuseppe Di Vittorio, storico primo segretario della Cgil. Il quale affermava solennemente «il principio che lo sciopero nei servizi pubblici sia da evitare in tutta la misura del possibile, e che comunque vi si possa far ricorso soltanto dopo aver esperito invano tutti i tentativi di conciliazione».
Dall'extrema ratio alla prassi del weekend lungo, l'astensione del venerdì ormai come non-notizia e rivolta contro il lavoro autentico, i nuovi bisogni, l'economia reale: anche così il sindacalismo italiano è diventato sfascista.
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