Giovanni Pecci, ovvero la politica 'on the road'

  • Postato il 24 settembre 2025
  • Politica
  • Di Agi.it
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Giovanni Pecci, ovvero la politica 'on the road'

AGI - Rendiamo omaggio a un uomo che per quasi un ventennio ha segnato la strada alla politica, senza pretendere di esserne alla guida ma senza mai distogliere lo sguardo dal ciglio della carreggiata, da cui è bene tenersi lontani perché le banchine son sdrucciolevoli, e parecchio. Giovanni Pecci ci ha lasciato oggi, a 75 anni, e non è giusto che il suo nome cada nel silenzio, giacché senza di lui pagine di giornali non sarebbero state riempite e qualcuno, probabilmente, Palazzo Chigi lo avrebbe visto con il cannocchiale. Ma forse no, lasciamo la questione aperta ed è bene così.

Era il 1996, che può sembrare assai lontano e invece fu l’inverno in cui tutto accadde e la primavera in cui tutto germinò: ancora adesso non abbiamo finito di avvertirne gli effetti, con tutto che la sensazione è quella dell’autunno. Oscar Luigi Scalfaro, a dispetto del febbrone, alla fine si era deciso a ricevere Lamberto Dini per le dimissioni con conseguente scioglimento delle Camere. Elezioni a doppia incognita: la prima era la Tangentopoli ancora galoppante; la seconda la possibile rivincita del Cavaliere, nero come nelle barzellette di Proietti e deciso a lavar l’onta di quello che lui chiamava il Ribaltone.

Chi gli opponeva il centrosinistra? Romano Prodi, persona stimata ma con qualche handicap rispetto al temibile rivale. Proviamo ad elencarne qualcuno: 1) la mancanza di un sorriso a trentadue denti; 2) l’aria da professore; 3) la ben minore presenza sulle televisioni nei due anni precedenti. Un guaio, perché non si può opporre ad una calza da donna, sapientemente apposta a far da ammiccante filtro all’obiettivo di una telecamera, un paio di occhiali da topo di biblioteca. Ugualmente non si può pensare che una costante esposizione televisiva possa essere controbilanciata da un ciclo di trasmissioni sullo sviluppo dell’economia cinese in senso capitalista.

È qui, però, che entra in scena il giovane Pecci Giovanni, 45 anni all’epoca dei fatti e qualche studio non certo trasandato. Pecci era, in effetti, uno di quei giovani economisti che la tecnocrazia bolognese aveva fatto germogliare in un brodo di coltura in cui l’Emilia trovò ad aprirsi al West: lambrusco e t-bone, culaccia e uno spruzzo di fordismo. Guardando dall’altra parte rispetto all’Adriatico, il giovane ebbe l’intuizione: se non basta la televisione, tutti sul torpedone.

L’idea di un pullman che girasse per le strade e i paesi della Penisola gli doveva essere venuta, infatti, compulsando gli annali delle campagne presidenziali americane: è lì che si legge come, nel 1948, uno sfavoritissimo Harry Truman aveva recuperato sul repubblicano Dewey prendendo il treno per fare un comizio in ogni angolo d’America. Aveva vinto alla fine, con gran scarto e grande scorno degli avversari, con la sua “whistle-stop campaign”. E prima di lui lo aveva fatto, con analoghi risultati, lo stesso Theodore Roosevelt.

Se Berlusconi parlava dall’alto dei cieli e dell’etere, Prodi avrebbe parlato dal basso della terra, più vicino alle orecchie degli abitanti di Antrodoco come di Ceglie, il cui voto valeva esattamente come quello degli occupanti dei divani delle città. Il pullman, poi, oltre a evitare le incognite della rete ferroviaria aveva in sé anche un riferimento - molto fighettone - alla Greyhound. Ad ogni modo, funzionò.Le cronache ci dicono che il viaggio durò a settimane intere, intervallato da qualche intervista e da comparsate televisive perché ognuno doveva essere raggiunto, anche quelli sul divano. Per assicurare l’eco mediatica, senza la quale tutto sarebbe stato comunque impossibile, vennero imbarcati gruppi di giornalisti.

Berlusconi, che pure aveva provveduto a gratificare Prodi di due nomignoli letali (“Mortadella” e “Il Dottor Balanzone”) prese sottogamba l’idea e mal gliene incolse: avrebbe potuto parlare di gita scolastica e distruggere l’immagine dell’iniziativa (tanto più che, come in una gita scolastica che si rispetti, ci fu chi si fidanzò), invece non lo fece. Prodi vinse e fu centrosinistra al potere, per la prima volta nella storia nazionale.

Pecci incassò il trionfo nella più assoluta discrezione. Eppure Berlusconi, che sapeva imparare dalle sconfitte molto più di quanto lui stesso non avrebbe mai ammesso, fece propria l’idea e l’elaborò. Nel 2000, mentre il centrosinistra iniziava ad avere il fiato corto e Prodi otteneva la Commissione Europea, lui prese non il treno, non il torpedone e nemmeno l’aereo. Prese la nave. Azzurra - non poteva chiamarsi altrimenti - fece letteralmente il coast-to-coast, nel senso che non ci fu caletta che venisse ignorata: del resto si votava in 15 regioni, e solo il Piemonte e l’Umbria non potevano essere toccate. Anche qui: giornalisti al seguito, qualche problema idraulico, risatine strozzate in gola per gli oppositori, ignari della potenza del messaggio subliminale “Italiani, vi porto in crociera”.

Caddero ai suoi piedi, fino ad allora rosse che non erano altro, l’Abruzzo, il Lazio, la Liguria e la Calabria. Governo D’Alema a casa, elezioni politiche del 2001 ipotecate. Erano gli anni in cui, dal Quirinale, Carlo Azeglio Ciampi teorizzava l’importanza delle “autostrade del mare”. Bene, Berlusconi aveva già percorso la sua. L’anno prima Walter Veltroni aveva invece bissato l’idea del pullman, ma le buone idee spesso hanno una sola vita e le europee erano andate così e così, tanto che Prodi, quello stesso anno, aveva preso il treno ed un treno avrebbe preso Francesco Rutelli nel 2001. Ma lo schema ormai era superato, o almeno boccheggiante.

Prodi stesso, nel 2006, al momento di riprendere la corriera la volle dipinta di giallo, a segnar la novità. Vinse anche questa volta, per carità, ma per 20.000 voti e durò poco. A palmare dimostrazione che il vento era cambiato, e bisognava mettere la maglia, il pullman di Veltroni del 2008, con annessa sconfitta ad opera dei manifesti 6x3 di Berlusconi presidente operaio. Il quale aveva, genialmente, rovesciato i termini della questione: non era un torpedone che andava dagli italiani, ma gli italiani in autobus che andavano da lui.

Cala così il sipario Accade che Matteo Renzi, in pieno tentativo di scalare il Pd, riprende la formula on the road, ma a modo suo. Nel senso che ha il suo caravan, o un camper, o qualcosa di simile, solo che qualche zelante sostenitore del Rottamatore, al momento altrove impegnato e pronto subito dopo alla dissociazione, ha la brillante idea di prendere un cartonato dalemiano a dimensione naturale e di piazzarglielo sotto le ruote. No, non è più aria.

Da allora i vari Giachetti, Di Battista, Raggi, Bertolaso e Marchini hanno usato, rispettivamente, la vespa, la bicicletta e i mezzi pubblici per candidarsi a sindaco di Roma oppure per lanciare pretenziose campagne referendarie. Come Roberto Fico, che proclamò la rivoluzione grillina andando a prendere possesso della presidenza della Camera a bordo del 64, che a Roma non è linea che goda di gran fama.

E Pecci, che a tutto questo ambaradan aveva dato il via? Non poteva che finire a gestire una ditta italiana che aveva fabbricato, nella sua gloriosa storia, i convogli della metropolitana di Washington e non si sa quanti autobus. Nel 1999, poi, alle comunali di Bologna aveva addirittura preso le parti di Giorgio Guazzaloca, il candidato del centrodestra. Gran sorpresa ma, sia chiaro, alla fine Guazzaloca aveva vinto. Quando si dice saper bene da che parte va il traffico.

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Autore
Agi.it

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