Genova 1960, la città insorse contro il congresso del MSI e spazzò via un governo ma chi c’è oggi a palazzo Chigi?

  • Postato il 15 agosto 2025
  • Cronaca
  • Di Blitz
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Genova, 30 giugno 196o, “Ottantatrè feriti e contusi a Genova in nuovi scontri tra polizia e dimostranti” era l’inizio di un articolo a firma di Mario Fazio, grande giornalista, pubblicato dalla Stampa il primo luglio del 1960, 65 anni fa.

I fatti di Genova, come furono chiamati, ebbero la conseguenza di fare cadere un governo prima ancora che nascesse e determinare la fine politica del mancato premier, il marchigiano Ferdinando Tambroni.

Sono passati 65 anni e a palazzo Chigi siede ora la figlia spirituale di quel partito e di quei dirigenti politici che furono bersaglio di quella sommossa. Sic transit.

Può non apparire una lettura adatta a un giorno di vacanza, ma credo invece che non ci sia occasione migliore per meditare sulla instabilità delle cose su questa terra.

Ma ancora per 30 anni il MSI e i suoi missini furono come dei lebbrosi del Parlamento, unici esclusi dall’arco costituzionale che includeva democristiani e communisti, socialisti e liberali e partiti cespuglio.

La situazione politica che fa da sfondo alla rivolta del 30 giugno 1960 era tra le più ingarbugliate e complesse della storia repubblicana.

Le forze in campo erano quelle delle varie correnti democristiane, dove dominavano il futuro presidente del Consiglio Amintore Fanfani e il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, pro e contro l’apertura della maggioranza ai socialisti di Nenni. Ma nessuno poteva fare i conti col partito Comunista, protagonista della guerra di liberazione e con alle spalle la grande ombra del Cremlino.

Un nuovo giornale

Genova 1960, la città insorse contro il congresso del MSI e spazzò via un governo ma chi c’è oggi a palazzo Chigi? A sinistra nella foto Ugo Zatterin
Genova 1960, la città insorse contro il congresso del MSI e spazzò via un governo ma chi c’è oggi a palazzo Chigi? – Blitzquotidiano.it (a sinistra nella foto Ugo Zatterin)

Le forze che sostenevano Tambroni sembravano compatte, salvo poi liquefarsi davanti al grido della piazza. Ma all’inizio della avventura nacque anche un giornale a Roma, Telesera, affidato a Ugo Zatterin, gran bravo giornalista di origini e accento veneto,  noto a milioni di telespettatori per i suoi commenti sull’unico canale Rai disponibile al tempo, a due voci con un altro grande, Gianni Granzotto.
Era un giornale ben fatto, nel formato lenzuolo unico al tempo. Arrivava anche a Genova, il giorno dopo. A me, quindicenne ma già radicato nella mia scelta di futuro lavoro, capitava di vederlo alla spiaggia ai bagni Doria di Quarto dove lo portava Guido Coppini, grande giornalista e maestro di vita, corrispondente di Telesera e padre di Mauro, mio compagno di banco in quarta ginnasio.

Vent’anni dopo conobbi e diventai amico di Zatterin, che nel frattempo aveva preso la carica di direttore del centro Rai di Torino (avrebbe poi chiuso la carriera come direttore del TG2, fondatore del Centro di Pescara per merito mio e intuizione del genio di Mario Lenzi, e infine direttore dell’Eco di Biella, vicino alla adorata figlia).

Provai a chiedergli di Telesera ma lui non gradì, segno che non era stata una gran bella esperienza.

In quei mesi, pur di avere una maggioranza in parlamento, Tambroni accettò di avere i voti del Movimento Sociale, al tempo apertamente e dichiaratamente neo fascista. Il partito, quasi a sfida, quale sede del suo congresso scelse Genova, città martire della guerra e più rossa anche di Bologna e Firenze. Ulteriore provocazione fu la presenza fra i congressisti di Carlo Emanuele Basile, che fu efferato prefetto di Genova durante la Repubblica di Salò e scampò alla pena di morte grazie alla amnistia di Togliatti.

La gente intorno a me quel 30 giugno esclama indignata: “Gh’e o Basile, gh’e o Basile”.

Ricordo quei giorni come fosse ieri. Vidi dalla finestra della mia camera sfilare quel fiume di diecimila portuali in piazza della Annunziata, le loro voci rimbalzate dagli antichi palazzi. E poi via Garibaldi, via 25 aprile (per i genovesi doc via Carlo Felice) e infine lo sbocco sulla grande piazza De Ferrari. Ancora il giorno dopo, quando mi ci avventiurai, imberbe cronista in giacca e cravatta, la piazza era in stato d’assedio, fra residui di camionette e candelotti.

Il 30 giugno mi ero accontentato di seguire gli scontri dalla ringhiera di Castelletto. Fin lassù arrivavano i botti dei lacrimogeni della polizia.

Quella stessa piazza, 6 anni dopo, sarebbe stata teatro del primo grande scontro pre sessantottino concluso con 35 dimostranti in catene nel ribunale di Palazzo Ducale. Fui testimone oculare dell’uno e dell’altro e anche della metamorfosi giudiziaria del PCI di fronte al dissenso fuori ordinanza.

I fatti di Genova nella cronaca di Mario Fazio

E veniamo alla cronaca di quel 30 giugno. Scriveva Mario Fazio.

Dopo una cerimonia antifascista, migliaia di persone si avviano con i gonfaloni delle città medaglia d’oro verso piazza De Ferrari All’improvviso alcuni scontri accendono l’atmosfera – La Celere lancia bombe lacrimogene, i dimostranti incendiano alcune macchine e lanciano pietre, sedie e tavolini dei bar – Quattro persone sono rimaste ferite gravemente – La circolazione dei tram sospesa dalla questura per motivi di ordine pubblico – La CGIL ha proclamato per domani uno sciopero generale di 24 ore (Nostro servizio particolare) Genova, 30 giugno.

Il centro di Genova è stato oggi un campo di battaglia: barricate, camionette della polizia in fiamme, decine di feriti.

Per due ore l’urlo delle sirene della « Celere » si è mescolato all’urlo di migliaia di dimostranti, in gran parte giovanissimi, improvvisamente scatenati per una scintilla che nessuno, probabilmente, riuscirà «lai a tJidibidiiarc.

 

 

 

 

Per quasi due ore, gli occhi brucianti per le cortine lacrimogene, abbiamo visto scontri di una violenza incredibile, esclusivamente fra agenti della « Celere » o della polizia e giovanotti, molti in tenuta da lavoro. Dai tetti e dai balconi piovevano pietre e vasi da /tori,

 

 

 

 

da un elicottero arrivavano candelotti che esplodevano nelle strade e nelle piazze, risuonavano scariche di fucileria, fortunatamente a salve. Passando da una colonna all’altra dei portici dell’Accademia, ho visto veri e propri corpo a corpo fra giovani e agenti.

Questi sollevarono di peso alcuni ragazzi e li bastonarono; quelli riuscirono a rovesciare una jeep: in un attimo fu una vampa, bruciò interamente a pochi passi dalla fontana di Piazza De Ferrari.

Tavoli di caffè, tende, automobili private sbarravano le strade vicine. E gli urli altissimi dei giovani spingevano nuove ondate all’assalto, lanciando pietre e bottiglie come bombe a mano. Fino al momento della lotta i dimostranti antifascisti, raccoltisi per protestare contro il congresso del MSI (indetto per sabato), erano rimasti tranquilli: erano migliaia, forse trentamila, raccolti in via XX Settembre, al Sacrario dei Caduti per la Resistenza, meta di un corteo autorizzato, svoltosi in tutta calma.

Quando la massa si incamminò verso piazza De Ferrari, con un flusso lento, era impressione di tutti che nulla sarebbe accaduto.

I carabinieri, schierati nei pressi del Ponte Monumentale, si limitavano a osservare; qualche dimostrante più acceso lanciava invettive, ma era subito zittito: ex-partigiani con bracciale tricolore avevano fatto catena, tenendosi per mano, dividendo cosi la marcia dai carabinieri. Sulla folla spiccava il labaro di Cuneo, con venti medaglie d’oro; uomini politici, già capi della Resistenza ligure, come il socialista Faralli, come l’avv. Cassiani Ingoni, invitavano i dimostranti ad andarsene a casa tranquillamente. Un gruppo di ex-partigiani sedette per terra, facendo cerchio sotto il Ponte Monumentale e intonando la canzone dei delle montagne.

Davanti al Sacrario erano i gonfaloni decorati di medaglia d’oro di Genova, con valletti in costume e di Torino, scortato da due consiglieri comunali: Nicola Grosa, presidente provinciale dell’Anpi, e Matilde Dipietrantonio.

Altri stendardi, di Biella, di Reggio Emilia, di Novara, dì Alessandria, di Vcnaria, davano un tono solenne alla manifestazione.

Poi scoppiò fulminea la battaglia. Si udirono le sirene della « Celere », attorno alla fontana di piazza De Ferrari si alzarono le prime nubi lacrimogene. La massa era già diminuita, molti se n’erano andati a casa. I rimasti accorsero di slancio e fu una lotta crudele sotto i getti d’acqua di due autobotti, quasi inutili. Eravamo là in mezzo: non possiamo dire, in coscienza, come sia avvenuto il primo scontro. La < Celere > era raccolta sotto i portici del palazzo della Navigazione Italia e nelle strade laterali. In zone poco distanti erano concentrati i rincalzi: in tutto forse 1500 uomini, arrivati in gran parte da altre città. I dimostranti, che avevano applaudito i carabinieri e i finanzieri disposti a presidio di altre strade (circa 2500 uomini), fischiarono e lanciarono invettive contro la < Celere ». Nella confusione si sentì una sirena, partì una prima» camionetta, volarono i primi sassi: fu colpito alla testa un commissario di Pubblica Sicurezza, il dott. Manlio Maggio. Erano le 17,10. I dimostranti si rifugiarono sotto i portici, staccarono insegne pubblicitarie, si armarono delle seggiole e dei tavoli di quattro caffè: l’Olimpia, il Ragno d’oro, il De Ferrari e il Bardi. Seggiole, tavoli, tavolacci divelti da un cantiere, pietre e mattoni fulmineamente raccolti nei sottopassaggi in costruzione, diventarono proiettili.

La « Celere » caricò con le camionette: una restò bloccata fra le colonne del Credito Italiano, alcuni ragazzi la incendiarono. Erano tre le camionette in fiamme. Automobili private in sosta furono disposte a sbarrare via Petrarca; mentre la « Celere » caricava da una parte, la massa rifluiva dall’altra.

Alle 18,45 un ufficiale dei carabinieri restò isolato sotto i portici dell’Accademia e fu restituito da alcuni portuali che agitavano un fazzoletto bianco. Il clima era di guèrra civile, con le assurde situazioni che caratterizzano queste battaglie improvvise.

Nella via XX Settembre, a duecento metri dalla lotta, altri dimostranti e carabinieri si fronteggiavano in silenzio, fermi. Due esili barricate a cinquanta metri dal Sacrario erano sguarnite. Dai balconi migliaia di curiosi osservavano lacrimando. I negozi e i portoni erano chiusi, ma qualche straniero riconoscibile per l’aria smarrita, ondeggiava da una parte all’altra senza capire.

Andammo verso la prefettura, passando con molta difficoltà uno sbarramento di filo spinato: l’aria era irrespirabile, ma la. zona era deserta. Ci furono lunghe pause, in cui i dimostranti filtrarono fra la polizia; alcuni passanti tranquilli e alcuni giornalisti furono scambiati per dimostranti ed inseguiti dagli agenti.

Poi, alle 19,10, quando una\ schiera di camionette rosse stava per lanciarsi ad un nuovo assalto, arrivò in piazza De Ferrari un’automobile della polizia seguita da un’automobile privata, scura. Il vicecomandante della Squadra Mobile, dott. Costa, scortò un ex capo partigiano, Gimelli (nome di battaglia < Gregorio »), il quale arringò i dimostranti, invitandoli a tornare a casa.

Era l’epilogo di affannose trattative, condotte mentre era ormai evidente che non bastavano più i candelotti lacrimogeni per controllare la piazza.

Genova stava per ripetere le ore drammatiche del li luglio 1948, quando, dopo l’attentato a Togliatti, la città dovette essere riconquistata con le armi. Alle 19,30 le forze opposte si fronteggiavano in silenzio. Comparve il prefetto di Genova dott. Pianese, scortato da un funzionario con gli occhiali contro i gas lacrimogeni: arrivò a metà strada, quindi tornò indietro. C’era ancora una folla enorme guardata dai carabinieri.

Poco dopo le venti altri scontri in via XX Settembre; un ragazzo di 17 anni venne ferito seriamente. Poco prima un agente della Celere era stato tuffato nella vasca di piazza De Ferrari. Poi piano piano la tensione si allentò.

A mezzanotte, secondo un annuncio del questore, il bilancio è il seguente: feriti (un funzionario, due ufficiali e 27 tra sottufficiali e guardie di P. S., di cui due gravi; nove dimostranti, di cui due gravi, due ufficiali e tre carabinieri); contusi 39 (quattro ufficiali e un funzionario di P. S.); arrestate 66 persone; tre camionette incendiate c distrutte; quindici automezzi danneggiati. E’ probabile che il congresso drl msi non potrà svolgersi senza nuove battaglie. Per il giorno della sua apertura è indetto un nuovo sciopero generale dalle sei del mattino alle diciotto.

Gli animi sono accesi, c’è veramente il pericolo di arrivare ad altri gravi scontri. I missini restane in disparte, ma da quanto abbiamo potuto sentire, sono rimasti sorpresi dalla violenza della reazione popolare alla scelta di Genova.

Si osserva, da taluno, che questa reazione è guidata in. gran parte dai comunisti, tutt’altro che indicati a battersi contro il totalitarismo e in nome della libertà. Ma, più che le ideologie, qui contano i sentimenti:

Genova ha troppo sofferto a causa dei nazifascisti e non ha dimenticato. In questa semplice ragione è il motivo principale della rivolta contro l’annunciato congresso missino, rivolta oggi uscita dai limiti previsti.

Tanto uscita che determinò la morte in fasce del governo Tambroni e la fine politica del personaggio.

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Autore
Blitz

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