Gaza tra Hamas e Anp: il futuro dei palestinesi è sul filo del rasoio

  • Postato il 21 ottobre 2025
  • Di Panorama
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Il presunto accordo che dovrebbe aprire la strada alla nascita di un governo tecnico per la Striscia di Gaza si sta rivelando, nei fatti, una trappola politica confezionata con abilità. Secondo quanto riportato da Kan Reshet Bet, Hamas starebbe partecipando attivamente, ma in modo occulto, alla formazione del nuovo esecutivo che dovrebbe assumere il controllo dell’enclave una volta completato il piano di cessazione della guerra. Dietro le apparenze di un’intesa condivisa e sostenuta dai mediatori arabi, si celerebbe una manovra studiata per preservare l’influenza del movimento islamista e garantirgli un futuro ruolo politico, anche se formalmente celato dietro figure “tecniche” e apparentemente neutrali. Israele, che avrebbe dovuto ottenere da questo accordo una pacificazione istituzionale, rischia invece di ritrovarsi di fronte a una versione rinnovata e più insidiosa di Hamas.

Secondo il rapporto, Hamas avrebbe già nominato circa la metà dei membri del futuro governo. Le designazioni sarebbero avvenute attraverso una rete di personalità che, pur non dichiarando apertamente la propria affiliazione al movimento, ne condividono i principi e la visione ideologica. L’altra metà dei membri, formalmente attribuita all’Autorità Nazionale Palestinese, sarebbe stata selezionata con il tacito consenso di Hamas, che avrebbe così ottenuto di fatto un diritto di veto sulle nomine. In sostanza, il nuovo governo nascerebbe già con un equilibrio asimmetrico, nel quale l’influenza del gruppo islamista resterebbe intatta, mentre l’Autorità Palestinese apparirebbe come una facciata utile a rassicurare gli sponsor occidentali e a presentare la transizione come un passo verso la “normalizzazione”.
Una illusione diplomatica che maschera la realtà: Hamas non ha alcuna intenzione di abbandonare il potere a Gaza, ma di rilegittimarsi attraverso un’operazione politica accuratamente travestita da compromesso istituzionale.

Il controllo dei terroristi di Hamas

Fonti egiziane e dei mediatori arabi avrebbero confermato che l’elenco completo dei membri del futuro governo è stato preventivamente mostrato a Hamas. L’obiettivo era chiaro: ottenere il suo via libera e assicurargli che l’esecutivo non avrebbe minacciato i suoi interessi fondamentali. In altre parole, la nascita del nuovo governo sarebbe condizionata al placet del movimento terrorista, che mantiene così un potere di influenza diretto e continuo sull’intero processo politico.

Per Israele, tutto questo assume i contorni di una “polpetta avvelenata” diplomatica. Accettare un governo formalmente tecnico ma sostanzialmente infiltrato da Hamas significherebbe riconoscere di fatto la sopravvivenza politica dell’organizzazione dopo una guerra costata migliaia di vite e mirata proprio a eliminarne il controllo su Gaza.
Una vittoria solo apparente per Gerusalemme, che vedrebbe ricomparire Hamas sotto nuove vesti, protetto dall’ombrello della legittimità internazionale e sostenuto da una rete di alleanze regionali.

Dietro il linguaggio della ricostruzione e del “governo condiviso” si intravede quindi una strategia più ampia: conservare il potere attraverso la mimetizzazione politica. Hamas, consapevole della necessità di rientrare nel gioco diplomatico senza apparire come ostacolo alla pace, ha adottato un approccio di “cooptazione silenziosa”, influenzando dall’interno la futura governance della Striscia. Una tattica raffinata, che consente di mantenere il controllo reale evitando il peso della responsabilità diretta e la visibilità che lo renderebbe un bersaglio immediato. Israele si trova così davanti a un dilemma strategico: accettare un governo che garantisca la stabilità immediata ma che di fatto legittimi la presenza di Hamas, oppure respingere l’accordo e rischiare un vuoto di potere destinato a innescare una nuova fase di instabilità. Entrambe le opzioni presentano rischi elevati, ma la seconda potrebbe essere politicamente insostenibile nel contesto internazionale attuale, che spinge verso la conclusione rapida del conflitto. In questa cornice, l’accordo non appare come un passo verso la pace, bensì come una ristrutturazione cosmetica del potere a Gaza, capace di riprodurre le stesse dinamiche di controllo e coercizione che hanno dominato l’enclave dal 2007. L’Autorità Nazionale Palestinese, pur formalmente reintegrata nel governo, rischia di trasformarsi in un partner subalterno in una formula di equilibrio solo apparente.

La transizione verso l’Anp

La comunità internazionale, concentrata sull’urgenza umanitaria e sulla necessità di un interlocutore stabile, potrebbe cadere nell’errore di legittimare un compromesso che premia l’ambiguità. Hamas, ancora una volta, dimostra di saper usare il linguaggio della politica per perseguire obiettivi di potere, trasformando la sconfitta militare in una vittoria tattica sul piano istituzionale. Se le anticipazioni di Kan Reshet Bet troveranno conferma, il futuro governo di Gaza rischia di nascere già contaminato. E per Israele, più che un successo diplomatico, si tratterebbe di un ritorno al punto di partenza: una tregua illusoria e un nemico più radicato che mai. Tuttavia non è detto che questa «polpetta avvelenata» abbia un esito scontato. Nel gioco delle alternative, emerge una possibilità politica diversa e potenzialmente risolutiva: una transizione che porti all’effettivo ritorno del controllo amministrativo alla Presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Se la comunità internazionale e i mediatori insistessero su un modello che consegni poteri esecutivi e responsabilità reali all’Autorità, garantendo garanzie di sicurezza e controllo sulle forze armate, Abu Mazen potrebbe — almeno formalmente — riprendere il controllo della Striscia.

Una soluzione con Abbas alla guida presenterebbe vantaggi e rischi. Sul fronte positivo, la reintegrazione dell’Autorità nazionale potrebbe rompere il monopolio politico-militare di Hamas e offrire un interlocutore che, seppur debole e contestato, gode di maggiore riconoscimento internazionale. Sul fronte negativo, la credibilità di Abu Mazen è scarsa tra vaste fasce della popolazione di Gaza: un trasferimento di poteri «imposto» dall’esterno rischierebbe di scatenare resistenze e nuovi conflitti locali, oltre a porre la stessa Autorità in una posizione di fragilità politica e amministrativa.

In definitiva, il vero banco di prova sarà la capacità degli attori esterni di trasformare la semplice etichetta di «governo tecnico» in un processo di reale de-militantizzazione delle istituzioni: condizionalità stringenti sugli aiuti, monitoraggio indipendente delle forze di sicurezza, riforme amministrative e un percorso credibile di riconciliazione nazionale. Senza queste condizioni, l’accordo rischia davvero di restituire a Hamas lo spazio politico che la guerra sembrava aver eroso, consegnando a Israele — non una soluzione — ma una visione di pace illusoria e pericolosa.

La domanda che ora pesa sulle negoziazioni è quindi anche questa: meglio una tregua fragile che nasconde la riedizione del controllo di Hamas, o spingere con determinazione su un piano alternativo che provi a restituire responsabilità e controllo all’Autorità di Abu Mazen? Alla luce dei fatti emersi, la risposta politica determinerà se l’accordo sarà ricordato come la «polpetta avvelenata» che ha salvato le apparenze, oppure come l’occasione mancata per rompere davvero il circolo vizioso del potere a Gaza.

Autore
Panorama

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