“Gaza rischia di diventare il prossimo Sudan, l’urgenza umanitaria in secondo piano”: intervista a Jesse Marks (Refugees International)

  • Postato il 22 settembre 2024
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“L’attenzione mediatica e diplomatica è rivolta da mesi all’accordo per il cessate il fuoco, ma così ha perso di vista l’urgenza degli aiuti umanitari, che allevierebbe immediatamente le sofferenze della popolazione”. Jesse Marks è responsabile per il Medio Oriente di Refugees International, ong umanitaria statunitense che non riceve finanziamenti governativi o dall’Onu.

Non gestendo servizi medici essenziali, in questi 11 mesi di guerra è rimasta fuori dalla Striscia, collaborando alle missioni Onu in Egitto e Giordania. Ma ha raccolto dati per stimare il tasso di malnutrizione, pubblicati in un report qualche giorno fa. “Gaza rischia di diventare il prossimo Sudan, con la differenza che qui la carenza di cibo non dipende da calamità naturali, ma dalla politica”.

Nello studio rilevate che tra aprile e maggio il rischio di fame a Gaza è diminuito per un breve periodo, per poi aumentare di nuovo. Cosa è successo?

In una parola, la pressione internazionale. In quel periodo è arrivata la richiesta d’arresto per Benjamin Netanyahu da parte del procuratore della Corte penale internazionale, c’è stato il raid che ha ucciso sette operatori umanitari dell’ong World Central Kitchen e gli Stati Uniti hanno cominciato a pretendere dal governo israeliano misure per limitare le vittime civili. Biden ha avuto una telefonata molto tesa con Netanyahu. Queste pressioni hanno obbligato Tel Aviv a fare concessioni: sono entrati più camion, le attività umanitarie hanno avuto più agibilità. Ma è durato poco: a maggio la situazione è precipitata con l’avvio dell’offensiva su Rafah.

Perché è peggiorata?

Il valico con l’Egitto è stato chiuso, un milione di persone è stato sfollato e la maggior parte degli ospedali evacuati. Il volume degli aiuti umanitari giornalieri è diminuito del 56%. Il World food programme ha perso 700 mila assistiti a cui forniva assistenza alimentare salvavita: prima dell’offensiva a Rafah erano 1,8 milioni, a luglio 1,1 milioni. Gli spostamenti forzati non rendono solo più precarie le condizioni di vita delle persone, ma rendono più complicato il lavoro degli operatori umanitari.

Quanto è grave la situazione oggi?

Prima del conflitto il tasso di malnutrizione era inferiore all’1%, oggi è del 7-8%. Nel nord di Gaza il rischio fame è cresciuto del 300%, al sud del 170%. L’Onu ha riassunto così la situazione: ‘Gaza è sempre a due settimane dalla carestia’. Ma l’attenzione internazionale è focalizzata solo sull’accordo per il cessate il fuoco.

Sta dicendo che la battaglia per il cessate il fuoco oscura quella umanitaria?

Gli sforzi della comunità internazionale sono tutti concentrati sul negoziato tra Israele e Hamas e non si parla più dei rischi umantiari, di aumentare i flussi di aiuti. Penso che tutte le energie dedicate in questi mesi a mediare tra governo israeliano e Hamas dovrebbero essere impiegate a salvare vite.

Cosa bisognerebbe fare, allora?

Garantire l’accesso totale delle ong al territorio della Striscia, evitare attacchi su camion e operatori umanitari, garantire il funzionamento dei servizi e delle infrastrutture essenziali, non costringere più la popolazione a spostamenti forzati. Misure che Israele può adottare da subito. Capisco che combattere una guerra assicurando l’assistenza umanitaria è difficile, ma stiamo parlando di 2,2 milioni di persone. E i focolai di poliomielite sono il segnale che il tempo sta per scadere.

La vostra ong non è presente direttamente nella Striscia, su cosa basate le vostre conclusioni?

Usando il modello standard globale di classificazione dell’insicurezza alimentare e la malnutrizione, il cosiddetto Ipc process. Abbiamo condotto interviste in Giordania ed Egitto con operatori umanitari e gazawi fuggiti e ottenuto dati dalle autorità israeliane e statunitensi, delle agenzie Onu e dalle strutture sanitarie sul campo. Anche sul terreno, la possibilità di fare screening sulla popolazione è limitato dalle restrizioni di accesso imposte dall’Idf. L’Onu ha accertato finora 37 morti per fame, è numero che va proiettato in scala.

Israele contesta gli allarmi umanitari. Uno studio accademico sostiene che nella Striscia arrivano 3200 calorie di cibo a persona al giorno. Il governo e l’Idf accusano Hamas di far sparire gli aiuti…

Che in alcune aree di Gaza ci sia, o ci sia stata, una condizione di carestia è un fatto provato. Il conteggio delle calorie è fuorviante, visto che i camion spesso sono pieni di cibo altamente calorico e di scarso valore nutrizionale: bevande gassate, cioccolata o dolci. Quanto alle razzie di Hamas, nessuno nega che esistano, ma il problema è a monte: in alcune parti di Gaza gli aiuti non arrivano per niente, perché l’Idf non approva i tragitti. Il tema è l’approccio che Israele sceglie di avere rispetto alle organizzazioni umanitarie. In altre zone di conflitto come Siria e Yemen, l’Onu e le ong gestiscono la crisi da anni. A Gaza, le condizioni sono peggiori ma alle ong viene negato un accesso totale. Le testimonianze raccontano di persone costrette a mangiare cibo per cani e bere acqua salata. Rischiamo una carestia come quella del Sud Sudan, con la differenza che in questo caso si potrebbe evitare.

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Il Fatto Quotidiano

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