Gaza, nuova corsa all’oro: 100 miliardi per ricostruire. Gli affari italiani nella Striscia
- Postato il 26 ottobre 2025
- Di Panorama
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Ufficiale: è partita la corsa all’oro. Ma niente trivelle, niente miniere, niente pale e picconi. L’oro oggi è impastato di sabbia, lacrime e dolore e si trova a Gaza. Con la pace tra Israele e Hamas, si è aperta una nuova stagione. Di quiete (forse) ma soprattutto di business (si spera). E che business. Quello della ricostruzione post-bellica, il più grande cantiere a cielo aperto del mondo, la nuova frontiera per aiutare l’economia globale un po’ in affanno come ha certificato il Fondo monetario internazionale.
100 miliardi sul tavolo
L’appuntamento è già fissato. La conferenza per la ricostruzione si svolgerà a novembre al Cairo. Sul piatto ci sono 80 miliardi di dollari, cioè il costo stimato per la rinascita di Gaza. Ma sicuramente ne serviranno molti di più. Almeno 100. La Banca mondiale ha già fatto il primo aggiornamento portando le stime dai 53 miliardi iniziali agli 80 attuali. A beneficiarne, saranno colossi internazionali, agenzie multilaterali e – se sapranno giocare bene le loro carte – anche le imprese italiane, che odorano l’occasione e iniziano a scalpitare.
La fetta del nostro Paese dovrebbe aggirarsi intorno ai 10 miliardi. Altro che Pnrr: qui il banchetto è vero, concreto e soprattutto internazionale. Ecco perché il recente annuncio di pace ha fatto saltare la Borsa come un petardo di Capodanno.
I primi bandi delle Nazioni Unite
La macchina delle gare è già partita. Senza perdere tempo – e senza aspettare i buoni sentimenti – le agenzie delle Nazioni Unite hanno lanciato i primi bandi: abitazioni prefabbricate da installare entro poche settimane. L’Oms non è da meno e corre con un altro bando, stavolta per apparecchiature medicali.
La Banca Mondiale apre la corsa
La Banca Mondiale si è buttata per prima nella mischia con il Procurement Plan 2025-2027, 170 milioni di dollari per il settore sanitario. Entro novembre saranno preparati 27 bandi, che spaziano da ospedali da rimettere in piedi a sistemi informatici sanitari, passando per la telemedicina (perché sì, Gaza sarà anche bombardata, ma dev’essere digitale).
La Commissione Ue prepara una Eu Gaza Facility, dotata di circa 1,6 miliardi di euro e destinata a coordinare i flussi della Banca europea per gli investimenti e le agenzie di sviluppo nazionali nei settori energia, acqua e gestione dei rifiuti.
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha confermato che l’Italia «parteciperà alla ricostruzione con le sue aziende, forti di esperienza internazionale».
Italia e Germania in pole position
I cugini francesi e gli ex padroni britannici, invece, sono rimasti impantanati nel fango delle dichiarazioni politicamente corrette, affrettandosi a riconoscere lo Stato di Palestina. Hanno deluso Bibi Netanyahu e Donald Trump che, avranno sempre l’ultima parola. Italia e Germania, invece, sono in pole position. E ora, come recita l’antica saggezza, «chi ha dato, darà».
Dalla bonifica alle infrastrutture
Ma prima di costruire, bisogna scavare. Non in senso metaforico. A Gaza si parte da sotto terra: sminamenti, distruzione dei tunnel di Hamas, bonifiche varie. Un lavoraccio che durerà da uno a due anni. Per garantire l’ordinato svolgimento dei lavori l’Italia potrebbe mandare i Carabinieri. Sarà il prezzo d’ingresso.
Dopo la pulizia, arriverà la corsa alle infrastrutture. Da rifare tutto: fognature, elettricità, gas, strade, ferrovie, ospedali, scuole. Persino le case. Il problema è che prima bisognerà liberarsi di tonnellate di macerie. Si parla di un volume pari a 13 volte le piramidi d’Egitto, e non è un modo di dire: proprio quelle, in metri cubi. Dentro, anche amianto, ovviamente. Materiale tossico da smaltire. Le discariche? Da costruire.
Le imprese italiane scaldano i motori
E qui entrano in gioco i pesi massimi. Confindustria scalda i motori, e il governo studia le leve finanziarie. In campo, la Banca mondiale, la Bei e i soliti amici del Golfo. Il Qatar, tanto per non fare nomi, metterà più petroldollari di quanti datteri secchi si vendono ogni giorno al bazar.
Il grosso degli appalti potrebbe passare da WeBuild (guidata da Pietro Salini), col supporto patriottico della Cassa depositi e prestiti. Poi c’è Gavio per le strade, Fs e Italferr per le ferrovie, Anas per l’asfalto e Bonifiche Ferraresi, già presente nell’area nell’ambito del Piano Mattei.
A seguire, una parata di “grandi famiglie” dell’edilizia italiana: Vianini (Caltagirone), Bonatti, Rizzani de Eccher, persino Pizzarotti – che dopo un po’ di acciacchi, cerca il rilancio tra le rovine. E infine Buzzi Unicem e Cementir, che il Nord Africa lo conoscono già, polvere compresa.
Cementir superstar di Piazza Affari
Per gli esperti di Piazza Affari, vera superstar è considerata Cementir dei Caltagirone grazie alla sua importante capacità produttiva in Turchia. Non a caso il titolo ha guadagnato il 50% dall’inizio dell’anno. Ne sono certi in Banca Akros: Cementir «potrebbe beneficiare della fine dei conflitti in Ucraina, Siria e nella Striscia di Gaza» grazie alla forte presenza in Turchia che la colloca nella posizione ideale per servire i cantieri dell’area.
Cementir «ha il 40 per cento della sua capacità produttiva in Turchia e l’amministratore delegato Francesco Caltagirone jr aveva dichiarato tempo fa che la società ha un potenziale di crescita nei volumi in caso di un cessate il fuoco in Palestina, Siria o Ucraina», sottolinea Matteo Bonizzoni, capo dell’italian equity research di Kepler Cheuvreux.
L’energia come chiave strategica
E poi c’è il capitolo energia dove Eni e Saipem potrebbero giocare un ruolo di primo piano. Al centro delle operazioni c’è il giacimento Leviathan, il vero simbolo della ripresa. Situato al largo delle coste israeliane, è uno dei più grandi del Mediterraneo orientale, capace di fornire gas a Israele, Egitto e Giordania.
A giugno 2025, con la tensione alle stelle tra Israele e Iran, Leviathan è stato spento per motivi di sicurezza. Ora funziona al rallentatore ma l’orizzonte è ricco: con la nuova espansione, Leviathan punta a passare da 12 a 21 miliardi di metri cubi l’anno, con un nuovo gasdotto (Nitzana) in arrivo. Un affare da 35 miliardi di dollari, già firmato con Il Cairo.
Altro che “risorse condivise”: qui si parla di diplomazia energetica, di export verso l’Europa, di gas che costruisce ponti. O ne fa saltare.
I porti italiani tornano protagonisti
Per l’Italia, che vanta aziende leader nel settore (Saipem in primis), il giacimento potrebbe essere un tassello centrale di una strategia più ampia: entrare nella ricostruzione non solo col calcestruzzo, ma con cavi, tubi e turbine.
Ma dove passa tutto questo materiale? In quale scalo arriveranno i prefabbricati, le gru, i generatori? Risposta: nel Mediterraneo, che torna centrale come non lo era da secoli. E a beneficiarne potrebbero essere proprio i porti italiani, a partire da Genova, Savona e La Spezia.
La Genoa Shipping Week della settimana scorsa l’ha detto chiaro: ci troviamo davanti a un nuovo Rinascimento marittimo, dove il cemento non viaggia più da Rotterdam ma da Genova al Levante.
L’effetto domino sull’occupazione
Secondo i calcoli, un milione di container in più a Genova potrebbe generare fino a 40 mila nuovi posti di lavoro. Un effetto domino che parte dai moli e arriva alle periferie delle città portuali, passando per ferrovie, autotrasporti e logistica.
Con l’ampliamento del porto e la nuova diga in via di completamento con i fondi del Pnrr, solo Genova potrebbe creare 8 mila nuovi occupati diretti entro il 2030.
Il rischio della governance
Certo, la governance è ancora un miraggio. Chi gestirà questi immensi capitali? L’Autorità Palestinese, sotto tutela internazionale? Un’amministrazione tecnocratica? Un nuovo protettorato Onu sotto forma di Eu Gaza Facility?
Il rischio – ed è gigantesco – è che la ricostruzione diventi una fiera delle vanità internazionali, dove si fanno (e si disfano) alleanze, si spendono miliardi e si costruiscono quartieri “green”, mentre la popolazione sopravvive nei container.
Eppure, questa potrebbe essere l’occasione per un vero salto di qualità, non solo economico ma politico. Se Gaza rinasce davvero, allora la pace può smettere di essere un’illusione da diplomazie ingessate e diventare una realtà, magari un po’ impolverata di cemento, ma reale.
Il nuovo affare del secolo
Il cantiere Gaza è aperto. Le ruspe hanno acceso i motori, i broker sorridono, le aziende italiane lucidano le scarpe antinfortunistiche. È la nuova “ricostruzione” del Medio Oriente, dove la pace può essere un affare.
Per l’Italia, è il momento di smettere di guardare il mare con nostalgia. È ora di tornare a navigare, costruire, esportare.
E – perché no – riaffermare la sua centralità nell’antico Mare Nostrum. Che la gara abbia inizio. E che vinca il miglior fornitore certificato Onu.