Gaza, il giornalista Zaqout: “Consumato dalla fame, ho perso 15 kg. Ogni giorno dobbiamo scegliere tra raccontare la verità o sopravvivere”
- Postato il 18 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“Camminare bendati in un campo minato”. Usa questa immagine Hisham Zaqout per descrivere il suo lavoro nella Striscia di Gaza. “Ogni giorno salutiamo le nostre famiglie come se fosse l’ultima volta”. Ha 41 anni, è corrispondente di Al Jazeera con 20 anni di esperienza nel giornalismo, e il suo è un volto molto noto per chi segue l’emittente in lingua araba. Nel 2024 ha vinto il premio Shireen Abu Akleh dell’Università palestinese di Bir Zeit e dopo un anno il Telly Award. Oggi, a pochi giorni dalla morte del suo collega e amico Anas Al-Sharif, ucciso insieme ad altri 5 reporter dall’esercito israeliano in un attacco mirato alla loro tenda, Zaqout si rivolge ai colleghi stranieri: “Alzate la voce per noi. Ci sono cronisti malati, altri gravemente feriti. Chiedete che possano uscire in sicurezza da qui”.
L’uccisione del 28enne Anas Al-Sharif è stata duramente condannata dai sindacati, dalle associazioni per la libertà di stampa e dall’Onu. E ha lasciato sconvolti molti giornalisti in tutto il mondo. Conosceva Anas Al-Sharif? Cosa pensa delle accuse mosse nei suoi confronti dall’esercito israeliano?
Anas si era unito alla nostra squadra a novembre 2023 e fin dal primo giorno è stato una forza della natura. Lavorava giorno e notte, instancabile, muovendosi con la sua macchina fotografica per documentare ogni cosa. Il mondo intero lo vedeva, il che significa che anche l’esercito israeliano conosceva la sua posizione in ogni momento. E vedeva ciò che vedevano anche gli altri: un reporter in una tenda che raccontava la verità. Non lo hanno attaccato per caso: ucciderlo è stato come uccidere la verità stessa. Le accuse? Sono un deplorevole tentativo di legittimare l’omicidio di un giornalista.
Dal 7 ottobre a oggi sono oltre 230 i reporter uccisi nella Striscia. Come hanno reagito gli altri giornalisti palestinesi a questa nuova strage?
Ogni collega morto ha lasciato in noi una ferita profonda. L’omicidio di Anas ci ha lacerato, ma non ci ha spezzato. A Gaza, impariamo a soffrire restando in piedi, a piangere mentre andiamo avanti. La paura fa parte di noi, ma la nostra responsabilità è più grande. Continuiamo il nostro lavoro per essere la voce di Anas e di tutti gli altri colleghi uccisi.
Nelle scorse settimane, i giornalisti dell’Afp hanno lanciato l’allarme per i colleghi della Striscia che “muoiono di fame”. Quali sono le sue condizioni? Ha cibo a sufficienza per continuare a lavorare?
Il mio corpo è consumato, ho perso più di 15 chili. La realtà è che ti svegli e non pensi a cosa mangerai, ma se mangerai. Da mesi ci stiamo nutrendo di cibi secchi, disidratati, che riescono a malapena a tenerti in vita. Il cibo fresco e sano e l’acqua potabile sono lussi che non possiamo permetterci. Ma ciò che mi preoccupa di più è la paura di ammalarmi in un luogo dove non ci sono medicine.
Cosa significa fare il giornalista nella Striscia di Gaza oggi?
È come camminare bendati in un campo minato. Ogni giorno salutiamo le nostre famiglie come se fosse l’ultima volta. Significa che il giubbotto con la scritta Press non è più uno scudo che ti protegge, ma un bersaglio. Significa scegliere tra raccontare la verità o sopravvivere. E preferiamo sempre la prima opzione. Nel resto del mondo il giornalismo è un lavoro o una passione. Per me qui, in Palestina, è come un destino. Ho scelto di essere la voce di chi non ce l’ha, di portare sulle spalle le storie di un popolo e raccontare la storia di chi lotta per vivere in libertà come tutti gli altri su questa terra.
Esiste per voi la possibilità di essere evacuati dalla Striscia?
Deve esistere. Ed è qui che entrate in gioco voi, che lavorate in Italia e nel resto mondo. Le vostre voci vengono ascoltate. Ci sono giornalisti tra noi che sono malati, altri che sono rimasti gravemente feriti mentre lavoravano. Per l’umanità e la professione che ci uniscono, alzate la voce. Chiedete che i reporter palestinesi con problemi di salute possano lasciare la Striscia in sicurezza.
È quindi un messaggio che vuole lanciare ai colleghi stranieri?
Più che un messaggio, è un urlo. I vostri colleghi qui vengono uccisi a sangue freddo. Serve un’azione che scuota la coscienza del mondo. Immaginate se, per un giorno, tutti i quotidiani del mondo uscissero con una prima pagina bianca o se ogni sito di informazione venisse oscurato in segno di lutto. Bisogna agire subito, perché ogni minuto di silenzio può costare la vita a un altro cronista. Bisogna muoversi prima che diventiamo un’altra notizia dell’ultima ora.
Quali sono le sue speranze per il futuro?
Vorrei tornare a casa mia, che ora è un cumulo di macerie, e ricostruirla. Sogno il giorno in cui potrò pianificare il futuro senza che la mia unica preoccupazione sia la sopravvivenza, il momento in cui la vita non sarà solo un continuo tentativo di fuga come lo è stata negli ultimi due anni. Ora qui è come sopravvivere alla morte che ci segue ovunque come un’ombra.
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