Gaza, America e l’Occidente: il silenzio che uccide

  • Postato il 18 giugno 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

C’è un odore acre che si alza dalla Striscia di Gaza. Non è solo quello della polvere e della carne bruciata. È l’odore dell’indifferenza del mondo, della diplomazia che ha dimenticato l’umanità, delle alleanze scritte col sangue e mai con l’inchiostro. In questo teatro di guerra che non ha mai conosciuto pace, il ruolo degli Stati Uniti è centrale, eppure avvolto da un’ambiguità spessa come il fumo delle bombe che cadono su Rafah. Parlano di equilibrio, di diritto alla difesa, di necessità strategica. Ma a ogni dichiarazione pubblica, corrisponde un silenzio pesante nei corridoi dei servizi segreti, dove si muove una rete di interessi che con la giustizia e la pace ha ben poco a che fare. L’America ufficiale, quella dei comunicati stampa e delle visite diplomatiche, continua a sostenere Israele. Fornisce armi, tecnologie di sorveglianza, intelligence. Lo fa apertamente, invocando un’alleanza storica e il dovere di combattere il terrorismo. Ma l’America reale è più profonda e contorta. Nei suoi apparati di sicurezza, nella CIA, nel NSA, nei contractor privati che agiscono nelle zone grigie della geopolitica, si muove qualcosa che ha il volto della strategia e il cuore dell’avidità. Gaza non è solo un conflitto: è un laboratorio di controllo, una vetrina di nuove tecnologie militari, un’occasione per riposizionare poteri nell’area mediorientale dopo la ritirata afghana, il crollo siriano e l’ambiguità dell’accordo con l’Iran. Non c’è solo l’America. Ma c’è soprattutto lei. Perché è ancora l’unica nazione in grado di condizionare in modo massiccio il flusso degli eventi. Ogni veto, ogni “no” al Consiglio di Sicurezza ONU è una condanna a morte per centinaia di civili. Ogni fornitura di armamenti è un prolungamento del massacro. Ma c’è di più. Ci sono operazioni sotto traccia. Colloqui mai registrati tra vertici militari e aziende belliche. Compagnie americane che vendono strumenti di sorveglianza a Tel Aviv, mentre Washington si professa mediatrice di pace. Rapporti della CIA che indicano movimenti di cellule radicali dentro e fuori Gaza, ma che vengono usati per giustificare l’attacco totale, mai per costruire una via d’uscita politica.

E in tutto questo, l’Europa? Dove siamo noi? Dove sono le capitali europee che si professano custodi dei diritti umani? Berlino, Parigi, Roma, Bruxelles… tutte impegnate in un equilibrio ipocrita: parlare di “cessate il fuoco umanitario” mentre continuano a commerciare, a siglare intese economiche, a evitare sanzioni. L’Europa è assente, o peggio: complice. Troppo impaurita dall’antisemitismo per dire la verità, troppo legata a Israele per osare metterne in discussione le scelte militari, troppo distratta dai suoi confini interni per comprendere che una guerra come quella a Gaza riscrive l’equilibrio del mondo. L’Europa ha smarrito la sua voce. Parla con la lingua della burocrazia, non con quella del coraggio. E nel vuoto della politica si infilano altri attori, più pericolosi. Le mafie, ad esempio, sono già lì. Non nei talk show. Non nei commenti diplomatici. Ma nei porti, nelle forniture, nel traffico di armi e tecnologie. Si muovono sotto la superficie. I clan che controllano il traffico di droga e armi nel Mediterraneo vedono in Gaza una nuova opportunità: il caos. E nel caos, si fa affari. Ci sono già movimenti che collegano le coste del sud Italia, la Libia, il Sinai e poi Gaza. Scambi di armi con beni di prima necessità, contatti tra gruppi jihadisti e narcomafie. Non è un’ipotesi: è una realtà. Le mafie sono sempre là dove lo Stato si ritira, e oggi a Gaza ci sono solo milizie e interessi privati. I tunnel sotterranei non trasportano più solo armi per Hamas, ma anche tecnologia, denaro sporco, organi umani. Il mercato nero esplode quando esplodono le bombe. E chi ha il monopolio dell’illecito sa fiutare il momento. Intanto i bambini muoiono. Non solo sotto le macerie. Muoiono anche nelle menti. Muoiono nei sogni. Crescono nel rancore, nella sete di vendetta, nella disperazione. Sono la prossima generazione di combattenti, o la prossima generazione di morti. Ma in ogni caso, sono già segnati. Gaza è diventata il luogo più denso di dolore del nostro tempo. Ma anche il più dimenticato. Perché non conviene. Perché una verità troppo dolorosa ci costringerebbe a cambiare. L’America continua a giocare a fare il gendarme del mondo, ma è sempre più simile a un mercante d’armi. Non tutela la democrazia, la vende. Non difende i deboli, li seleziona. Gaza è lo specchio rovesciato del sogno americano: non più la terra della libertà, ma il rifugio delle contraddizioni. Ogni missile sganciato ha un codice, una provenienza, un committente. E troppo spesso quel committente parla inglese, sorride nei summit e firma contratti con mani insanguinate. Eppure, nessun tribunale internazionale sembra accorgersene. Perché la verità è scomoda. Perché smaschererebbe troppi alleati, troppi equilibri di potere. E allora si finge neutralità. Si invoca la “complessità della situazione”. Ma non c’è niente di complesso nel vedere bambini morire di fame, donne partorire tra le bombe, medici uccisi mentre salvano vite. Quella non è complessità. È barbarie. Nel silenzio, nei dossier secretati, nei cablogrammi cifrati, si sta giocando una partita che non riguarda solo Gaza. Riguarda l’intero assetto del Medio Oriente. L’asse tra Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita è più vivo che mai, alimentato da promesse economiche, pipeline del gas, controllo sui mercati energetici. L’Iran è lo spauracchio, il nemico da addomesticare. E Gaza è il pretesto. Come sempre, il popolo palestinese viene usato, non ascoltato. È merce di scambio. Viene evocato nei discorsi ma mai realmente difeso. E anche quando si invocano “due popoli, due Stati”, lo si fa con la stessa sincerità con cui si saluta un vecchio nemico: a denti stretti, senza guardarlo negli occhi. Il mondo, intanto, si ristruttura. Cina e Russia osservano, si muovono sullo scacchiere. Le milizie di Hezbollah nel nord, le trame di destabilizzazione nel Mar Rosso, i nuovi scenari africani: tutto si tiene. E gli Stati Uniti continuano a giocare su più tavoli, con l’illusione di poter controllare ogni mossa. Ma Gaza è l’emblema del limite. Il punto oltre il quale la potenza non è più controllo, ma solo distruzione. E se il mondo libero non saprà dirlo, allora non sarà più un mondo libero. L’Europa dovrebbe essere la voce della coscienza. Ma tace. Oppure balbetta. La Francia è troppo coinvolta nelle sue ex colonie africane. La Germania è imprigionata nel suo passato e nei suoi sensi di colpa. L’Italia osserva, commenta, si emoziona a intermittenza. Ma nessuno osa fermare davvero la macchina della morte. Nessuno impone condizioni per la pace. Nessuno taglia i fondi a chi bombarda ospedali. Nessuno chiama le cose con il loro nome. Si parla di “errori”. Ma qui non ci sono errori. C’è un disegno. E quel disegno è fatto di denaro, geopolitica, potere. Eppure, ci sarebbe un’altra strada. Quella dell’ascolto, della mediazione, della giustizia vera. Ma non si percorre. Perché non porta voti. Perché non muove capitali. Perché non conviene. E così restano solo i morti. Le case sventrate. I corpi senza nome. Le immagini che non arrivano nei TG. I messaggi che si perdono nei blackout. E in mezzo a tutto questo, si muovono le ombre. Le agenzie. Gli agenti. Le mafie. I trader di morte. Tutto ciò che vive e prospera nell’assenza di umanità.

Se oggi vogliamo dirci uomini e donne di pace, dobbiamo guardare Gaza non come un conflitto lontano, ma come il cuore pulsante della nostra ipocrisia. E se vogliamo davvero costruire un futuro, dobbiamo iniziare col dire la verità. Anche quando fa male. Anche quando svela che quelli che chiamavamo “alleati” sono, forse, i primi responsabili. Perché la pace non si costruisce con il silenzio. Si costruisce con il coraggio.

E oggi, il coraggio è tutto ciò che ci manca.

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