Gang latine in Italia: la mappa del potere criminale che domina le città

  • Postato il 25 giugno 2025
  • Di Panorama
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Un esercito invisibile ma ben organizzato si muove tra le strade, le stazioni e le periferie italiane. Giovani, spesso minorenni, inquadrati in strutture gerarchiche rigide, si identificano con tatuaggi, simboli, soprannomi e rituali iniziatici. Non si tratta solo di bande giovanili: il fenomeno delle gang latine in Italia è oggi una vera rete criminale transnazionale, capace di controllare pezzi di territorio, imporre regole, punire chi tradisce.

Originariamente importate dal Centro e Sud America, in particolare da Ecuador, Perù, El Salvador e Honduras, le pandillas si sono radicate con forza a Milano, Roma, Genova, Torino, Firenze e in altri centri urbani. Le prime segnalazioni risalgono ai primi anni Duemila, ma oggi il fenomeno ha assunto proporzioni allarmanti. Secondo fonti investigative, si contano centinaia di affiliati solo tra Lombardia e Lazio. I più noti sono i Trinitarios, i Latín Kings, i Neta, i Mara Salvatrucha (MS-13), e i Barrio 18. Queste ultime due MS-13 e Barrio 18, stanno consolidando la loro presenza in entrambe le città, grazie a solidi legami familiari e al controllo di affari illeciti che spaziano dal traffico di droga agli affitti degli alloggi occupati. Le gang si muovono su più livelli. Da un lato, compiono rapine, pestaggi, traffico di droga e armi, controllo del territorio, intimidazioni. Dall’altro, esercitano un fascino identitario fortissimo su giovani emarginati, spesso nati in Italia da famiglie migranti, che trovano nella banda un senso di appartenenza e protezione. A reclutarli sono coetanei o “capitani” più grandi, che li sottopongono a prove di iniziazione violente: pestaggi, furti, aggressioni ai danni di bande rivali.

Nei recenti rapporti delle forze dell’ordine si parla apertamente di emergenza sociale. Le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia confermano che alcune di queste organizzazioni hanno ormai una struttura paramilitare, con codici e regole interne rigide, e collegamenti diretti con i cartelli sudamericani. Le chat Telegram sono criptate, gli incontri si svolgono in luoghi isolati, i soprannomi, spesso in spagnolo, mascherano le identità reali.

L’aggressività si esprime anche sui social, dove i video con pestaggi, coltelli, machete e sfide alle bande rivali vengono pubblicati come trofei. L’uso strategico di TikTok e Instagram serve sia a spaventare, sia a reclutare.

Fatti recenti e aree a rischio

I fatti di cronaca più recenti testimoniano la gravità del fenomeno.

A marzo 2025, in via Palmanova a Milano, una maxi rissa ha visto decine di giovani affrontarsi con dei coltelli ed un ragazzo di 23 anni è rimasto sfregiato al volto. A giugno, a Roma, un diciannovenne è stato accoltellato al petto da un branco alla fermata della metro. Sempre nella capitale, a Cinecittà, qualche settimana prima un giovane latinoamericano è stato spinto sui binari dopo una lite morendo sul colpo. In entrambi i casi, le dinamiche portano dritto alle gang sudamericane. Bande che tengono in pugno le stazioni della metropolitana con gruppi di turisti che spesso, derubati, fuggono impauriti da aggressioni e risse.

A Milano, secondo fonti della Polizia, le cosiddette “zone rosse” sono concentrate in aree come Via Padova, Viale Monza, Lambrate, Corsico, Parco Trotter e Sesto San Giovanni. A Roma, invece, i quartieri più caldi sono Tor Bella Monaca, San Basilio, Primavalle, Laurentino 38, Corviale e Tuscolano.
Le segnalazioni si moltiplicano anche in altre città. A Firenze, tra Novoli e Le Piagge, si stanno formando cellule che riproducono gli stessi rituali. A Torino, nei quartieri Barriera di Milano e Mirafiori Sud, i residenti denunciano risse organizzate e ronde giovanili. A Genova, a Sampierdarena, bande di giovani latinos si contendono piazze di spaccio e spazi di controllo. E poi ancora Monza, Bologna, Verona, Parma, Padova: piccoli focolai che crescono nell’ombra.

Per capire meglio il fenomeno, abbiamo raccolto testimonianze dirette da investigatori ed esperti che hanno lavorato sul campo a stretto contatto con le gang.

«A differenza di Milano, dove le indagini hanno già documentato la presenza di gruppi criminali strutturati di Latinos, a Roma – almeno per ora – parliamo più che altro di devianza giovanile.»
commenta Andrea Olivadese, Direttore della Seconda Divisione del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato

Questi gruppi hanno una gerarchia interna? Esiste un capo, degli affiliati?
«Quando il gruppo è strutturato, sì. In quei casi emergono ruoli precisi e dinamiche di tipo quasi mafioso ma al momento il nucleo più strutturato si localizza soprattutto su Milano, dove si è evidenziata una vera e propria presenza criminale. A Roma il fenomeno appare meno organizzato, anche se l’interesse si è acceso probabilmente in seguito a qualche fatto recente. In generale parliamo di ragazzi molto giovani, spesso minorenni o appena maggiorenni. In generale si tratta di giovani latinoamericani, con una prevalenza di salvadoregni. Ci sono sia ragazzi nati all’estero e trasferiti in Italia, sia seconde generazioni, nati qui da genitori già trapiantati.»

«E le ragazze? Sono presenti nei gruppi?»
«Sì, ci sono anche ragazze. All’inizio pensavo avessero un ruolo marginale, invece ho scoperto che la loro presenza è significativa. Non occupano posizioni verticistiche, ma svolgono funzioni importanti, non solo di supporto ma di assistenza alla “vita” del gruppo»

I social come fonte di informazione: quanto contano?
«Sono una fonte utile, perché permettono di raccogliere dati su incontri, spostamenti o collegamenti tra persone. Non serve necessariamente un contenuto esplicito: basta un post per sapere che quel giorno cinque persone si sono viste, o che in un altro erano insieme in quattro. Oppure, grazie alla geolocalizzazione, possiamo dedurre che una persona vive in un certo quartiere, o che si trovava in un determinato luogo. Informazioni che, pur non avendo valore probatorio in senso stretto, diventano ottimi elementi di contatto e incrocio.»

Oltre la microcriminalità: omicidi e traffici illeciti

Le gang latine non si limitano alla microcriminalità: dietro le loro attività si nascondono omicidi efferati, detenzione illegale di armi, traffici di droga e tentati omicidi. Già nel 2015, l’attenzione pubblica si era concentrata su un episodio violento a Milano, quando due giovani latinoamericani dell’Ecuador — entrambi affiliati alla Mara Salvatrucha 13, una delle pandillas più violente nate a Los Angeles — tentarono di amputare con un machete il braccio al capotreno Carlo Di Napoli, alla periferia della città.

Nel 2023 e 2024, le operazioni delle forze dell’ordine hanno portato a oltre 70 arresti solo nell’area di Milano, coinvolgendo anche minorenni.
A parlarcene è Walter Massimiliani, poliziotto con vent’anni di esperienza alla Questura di Milano e autore del libro Pandillas, uno dei primi a studiare queste realtà da vicino.

Com’è iniziato il fenomeno delle gang latine in Italia?
«È cominciato tra Genova e Milano, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. In quel periodo c’era una forte domanda di lavoro nel Nord Italia e si registrò un afflusso importante di donne sudamericane, arrivate per motivi economici. Dopo qualche tempo, le raggiunsero i figli tramite richieste di ricongiungimento familiare. Questi ragazzi, una volta in Italia, si sono ritrovati a metà tra due mondi: non del tutto accettati dalla società italiana, ma anche lontani dal paese d’origine. È in questo vuoto identitario che hanno iniziato ad aggregarsi, creando bande che riproducevano i modelli visti nei quartieri marginali delle grandi metropoli americane.»

Parliamo di vere e proprie organizzazioni internazionali?
«Dipende. Nella prima fase si è osservata anche la presenza di gang “autoctone”, ispirate alle pandillas internazionali ma senza collegamenti diretti, come gli ecuadoriani dei Latin Forever e i peruviani dei Comando. A queste si affiancavano gang transnazionali come i Latin Kings (composti prevalentemente da ecuadoriani e peruviani), i dominicani dei Trinitarios, e le maras salvadoregne della MS13 e della 18th Street (Barrio 18). Queste strutture sono riconosciute a livello globale e hanno codici d’onore, riti d’ingresso e gerarchie interne ben definite. In un secondo periodo, attorno al 2010, sono comparsi una serie di gruppi minori come i Latin Dangers, i Los Brothers, i Trebol, i Revolution e i Latin Flow. Nella sola Milano erano presenti circa 18 gruppi, per un totale di circa 3000 ragazzi coinvolti in questo universo.»

In quali quartieri di Milano erano attive queste bande?
«Erano presenti un po’ ovunque, ma con una distribuzione territoriale precisa. In zona Corvetto e Lambrate operava la 18; via Padova e l’area attorno a Porta Romana erano considerate roccaforti della MS13; tra Piazzale Lodi e Piazza Emilia si muovevano i Nietas; i Latin Kings invece erano attivi a Sesto San Giovanni, Cinisello Balsamo, ma anche in zona Quarto Oggiaro e corso Lodi. Un fenomeno capillare, che ha riguardato anche città come Genova e Piacenza, dove si sono verificati episodi di estrema violenza, inclusi alcuni omicidi.»

Che tipo di reati commettono queste gang?
«I pandilleros, in moltissimi casi, sono coinvolti anche in reati predatori come scippi e rapine, oltre che nel traffico di stupefacenti. A Milano, dove la Squadra Mobile e il Commissariato Mecenate hanno condotto diverse operazioni, siamo arrivati a contestare l’associazione per delinquere. Ricordo in particolare l’Operazione Amor De Rey, conclusa nel 2013, che portò all’arresto di 100 persone. Un’indagine imponente, che ha confermato la presenza strutturata di alcuni di questi gruppi sul territorio.»

Esistono rituali di affiliazione?
«Assolutamente sì. Ogni gang ha i propri. Il più diffuso è il jump in: un pestaggio collettivo che il nuovo arrivato deve sopportare. Dopo segue una “missione” – spesso un reato violento – che serve a legarlo al gruppo. Da quel momento in poi, non si può più tornare indietro. È un sistema che garantisce omertà e controllo, proprio come nelle mafie tradizionali.»

C’è una componente simbolica, come nei clan mafiosi?
«Sì. Ogni gang ha i propri tatuaggi, un dress code preciso, e simboli visivi come i graffiti. Servono a marcare il territorio, dichiarare alleanze o lanciare avvertimenti. A Milano ne abbiamo catalogati decine. I Latin Kings, ad esempio, usano la corona a cinque punte o il leone; i Trinitarios hanno simboli legati alla patria dominicana e al motto “Dios, Patria, Libertad”. In alcuni casi, il sistema di comunicazione è molto più complesso: le pandillas si sono dotate di codici linguistici chiusi, che abbiamo in parte decifrato.»

È corretto dire che Milano ha già vissuto il picco del fenomeno?
«Direi di sì. A Milano, come a Genova, il fenomeno è ormai maturo: è stato studiato, combattuto e in parte contenuto. Ma sta migrando altrove. Penso soprattutto a Roma, ma ci sono segnali anche in altre città, come Firenze e Torino. E questo è preoccupante, perché significa che altrove sta nascendo ciò che a Milano abbiamo già affrontato: una criminalità giovanile transnazionale, con regole, simboli e un forte richiamo identitario.»

Come reagiscono le mafie italiane a queste gang?
«Come in tutti i sistemi criminali, ci sono livelli di interesse. Le pandillas non entrano in diretto contrasto con i sodalizi mafiosi, perché operano su un piano diverso. In teoria, potrebbero farne parte, oppure esserne funzionali. Durante l’Operazione Amor De Rey, per esempio, abbiamo documentato il coinvolgimento dei Latin Kings nel traffico internazionale di stupefacenti provenienti dal Sudamerica. Alcuni pandilleros erano entrati in contatto con esponenti del cartello di Sinaloa, per distribuire parte della cocaina immessa sul territorio nazionale.»

Autore
Panorama

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