Galleria degli Uffizi, tutti i tesori riemersi del settecento
- Postato il 24 agosto 2025
- Di Panorama
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Si è fatta molta retorica sulla disponibilità di opere di pregio nei depositi dei musei italiani, cavalcando liberamente un argomento che solo pochi sarebbero in grado di maneggiare con reale cognizione di causa. È stato fatto credere a riguardo che queste strutture nasconderebbero tesori altrettanto preziosi di quelli esposti e che, se fossero visti magari in località non particolarmente baciate dalla fortuna turistica, potrebbero attrarre anche lì orde di visitatori ancora più abbondanti delle attuali.
Già l’idea di considerare le opere d’arte collocabili ovunque se solo riuscissero a calamitare villeggianti facilmente abbindolabili ha un fondo malsano, al limite dell’immoralità. Ma nella fattispecie è il motivo alla base del discutere a non avere fondamento: non è vero che le gallerie straboccano di opere nascoste, possono essercene solo nelle raccolte maggiori che avessero problemi di spazi espositivi, ma le restanti sarebbero apprezzate solo da coloro che fossero dotati di sufficienti strumenti critici per farlo, ovvero gli studiosi.
Esporre qualcosa piuttosto che altro non è scelta dettata dal caso, ma da precise competenze, non ci si improvvisa in questo. Certo, quando non è lo spazio ridotto a dettare legge ci si può sbagliare a considerare un’opera non meritevole di esposizione, i casi in questo senso sono innumerevoli, ma il più delle volte ci si azzecca.
Gli Uffizi appartengono alla ristretta categoria dei musei maggiori i cui spazi espositivi non sono ancora sufficienti ad accogliere tutto ciò che le sue dotazioni vanterebbero. Giustificate, quindi, le mostre a rotazione che presentano di volta in volta opere, di solito di una certa epoca, che di norma o eccezionalmente vengono precluse alla comune visione, ponendo questa volta l’attenzione sul repertorio proveniente dal Settecento, il secolo in cui le collezioni dei Medici, in procinto di estinguersi nei Lorena, assumono una vocazione pubblica prima per volontà di Anna Maria Luisa, poi di Pietro Leopoldo (Firenze e l’Europa. Arti del Settecento agli Uffizi, a cura di Simone Verde e Alessandra Griffo, fino al 28 novembre). Una rassegna subito passata agli onori della cronaca per via di un increscioso ma ormai non più imprevedibile incidente, il solito “selficiente” che per farsi fotografare davanti a un Ritratto di Ferdinando de’ Medici di Anton Domenico Gabbiani (1721), autore di un’opera ancora più suggestiva in mostra, il modelletto semisferico per la cupola della chiesa del Cestello, è incespicato su un gradino distanziatore, sfondando la tela retrostante. Se non altro l’accaduto è servito a dimostrare che i gradini distanziatori non vanno bene se si permette ai visitatori di farsi selfie davanti alle opere; si è allora provveduto a montare nuovi distanziatori a maggiore altezza dei gradini che se non altro dovrebbero evitare gli inciampi pedestri.
L’esposizione, comprendente circa 150 opere che spaziano abbondantemente anche nell’applicato, è divisa in sezioni che se, da una parte, verificano le conseguenze artistiche determinate dal passaggio dai Medici ai Lorena, all’insegna di un fasto tardo-barocco più che pomposo, dall’altra focalizzano alcuni aspetti del gusto fiorentino dell’epoca, come la crescente passione per le scuole artistiche nazionali. Gusto fiorentino suggerito in primo luogo dall’opera dello studioso Luigi Lanzi per il turismo formativo da Grand Tour e il sublime di natura che anticipano la temperie romantica, per l’esotismo extra-europeo e anche per l’erotismo da camerino segreto. Come al solito, mi soffermerò solo su alcune delle opere esposte. Ve ne sono anche di celeberrime, come la cosiddetta “Pulce” (Donna che si spoglia o si veste, c.1715) del bolognese Giuseppe Maria Crespi, capolavoro di intimismo domestico d’ambientazione popolare che traduce il soggetto di genere, ormai di antica provenienza caravaggesca, sviluppato al meglio in area fiammingo-olandese, in una macchietta a beneficio delle classi agiate, legittimate a esercitare il voyeurismo nei confronti di chi appartiene a un ceto inferiore.
Noto universalmente è anche l’Autoritratto di Elisabeth Vigée-Le Brun, riparata in Italia dopo la fuga da Parigi a causa della Révolution (1789). Volendo partecipare alla galleria medicea di autoritratti, si rappresenta come deliziosa esponente di una leggiadria muliebre dal carattere elettivo rispetto alla volgarità plebea, confermando la piena vicinanza a Maria Antonietta di Francia di cui era stata fidata cortigiana a differenza di altre colleghe, come Adélaïde Labille-Guiard e Marie-Guillemine Benoist, che si sarebbero adeguate al nuovo corso politico.
Il modello della Vigée-Le Brun è l’elvetica romanizzata Angelica Kauffmann, la prima a proporre la grazia come specificità distintiva al femminile, testimoniata in mostra dal Ritratto di Fortunata Sulgher Fantastici (1792), poetessa non più di primo pelo, ma qui ancora di una certa avvenenza: è forte il dubbio che queste artiste ricorressero sistematicamente all’abbellimento per potere meglio esaltare i pregi del loro sesso. Muovendosi su altri fronti, sorprendente il Ritratto dell’imperatore cinese Kangxi di Giovanni Gherardini, artista ospitato ai primissimi del Settecento dalla corte di Pechino che, nell’individuare un codice espressivo condivisibile fra Occidente e Oriente, recupera il Quattrocento toscano di Masaccio e Piero della Francesca con esiti che anticipano il Realismo magico di due secoli dopo. Che l’attrazione per il mondo musulmano non fosse prerogativa della borghesia ottocentesca ce lo dice a chiare lettere il Ritratto di Maria Adelaide di Francia vestita alla turca (1753) di un altro elvetico di nascita, Jean-Étienne Liotard, a un passo da Manet se il colore non venisse tenuto sotto controllo da un senso ancora accademico della forma.
Chissà se si nasconde qualche malizia anti-fratesca nel Ritratto di Giovanni de’ Servi, meccanico (1773), del tedesco inglesizzato Johann Zoffany, l’autore della celebre Tribuna degli Uffizi, che testimonia dell’allestimento del museo in quel periodo, col religioso sornione che con una mano pare indicarsi il cervello e con l’altra offre la chiave appena lavorata a chi lo guarda. Bello, ma non travolgente, il quadro sul cui acquisto e restauro ha tanto puntato la mostra, il Matrimonio mistico di Santa Caterina di un Pierre Subleyras che è più brillante quando alle prese col tema licenzioso. Deludente, invece, il Tiepolo del Rinaldo e Ubaldo, al punto da fare chiedere quanto possa essere dovuto alla sua mano, così come nulla aggiunge al buon nome di Goya la Contessa di Chinchon a cavallo, troppo presa a fare da emblema araldico invece che a coinvolgere il resto del genere umano.