Francia, ultimatum dei sindacati al primo ministro Lecornu sulla legge di bilancio: risposte entro il 24 settembre o nuove proteste

  • Postato il 19 settembre 2025
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Stamattina i sindacati hanno dato un ultimatum al primo ministro Sébastien Lecornu: se entro il 24 settembre non avrà risposto alle loro rivendicazioni, si riuniranno per fissare una nuova giornata di scioperi e manifestazioni. Quella che sta investendo la Francia è una protesta che mescola giustizia sociale e fiscale, richieste di cambiamento politico, opposizione alle misure sull’austerità: i francesi scesi nelle piazze ieri (più di 500 mila per la polizia, almeno un milione secondo i sindacati), a solo dieci giorni dal Bloquons tout! del 10 settembre, chiedono che anche i più ricchi, che riescono a eludere il fisco tramite ottimizzazioni, contribuiscano allo sforzo del Paese per contenere il colossale debito pubblico. Denunciano le disuguaglianza crescenti, i redditi stagnanti per molte famiglie, le difficoltà per chi vive in zone rurali o periferiche. Denunciano l’erosione del welfare, i tagli sui servizi pubblici, alla sanità, all’istruzione, percepiti come ingiusti, specialmente verso chi ha redditi modesti o medi.

Chiedono la sospensione o anche l’abrogazione della riforma delle pensioni, votata nel 2023 dopo mesi di scioperi, e da allora diventata il simbolo dello Stato che non protegge i lavoratori. Un insegnante nel corteo di Limoges ieri sollevava il problema del carovita, affitto, trasporti, degli stipendi che non seguono l’inflazione: “La gente vuole guadagnarsi da vivere in modo corretto”. Un padre di Tolone partecipa al corteo con i due figli piccoli: “Vorrei poterli portare a cena fuori una volta ogni tanto”. Un’infermiera di Grenoble vorrebbe “svolgere il suo lavoro con più dignità”. La parola “dignità” torna più volte, anche scritta sugli striscioni a Marsiglia: “Per la dignità dei quartieri popolari”. Nelle strade c’erano pensionati solidali e tanti, tanti giovani, studenti di licei e di università, contro i costi dell’istruzione, gli alloggi sempre più cari, contro la precarietà, l’instabilità sul lavoro: molti di loro considerano che la prospettiva di un futuro dignitoso è sempre più incerta.

Ieri Sophie Binet, la leader del sindacato CGT, ha chiesto a Sébastien Lecornu di abbandonare il “museo degli orrori della manovra Bayrou”, che prevedeva quasi 44 miliardi di euro di risparmi. Lecornu ha già “ammorbidito” alcune misure più impopolari, rinunciando a sopprimere due giorni festivi dal calendario. La legge di Bilancio da 44 miliardi sembra ormai superata (si ipotizza piuttosto una manovra da 35 miliardi). Stamattina ha anche annunciato di avviare una missione per uno “Stato efficace” per eliminare delle spese di funzionamento delle istituzioni. Ma per ora queste “concessioni” non sembrano bastare a garantire la pace nelle piazze e la “non-censura” delle opposizioni al suo futuro governo (che non dovrebbe essere nominato prima della settimana prossima, in ogni caso dopo il rientro di Macron dagli Stati Uniti per l’Assemblea generale dell’Onu).

Il malcontento supera la questione delle misure fiscali e economiche – che include l’introduzione della tassa Zucman sui super-ricchi, come misura di equità -: c’è anche la richiesta di una vera svolta politica. Il malessere investe il modo in cui è governato il Paese: la sensazione che il governo agisca per pochi, senza ascoltare le richieste della gente e delle parti sociali, mentre la classe media, i giovani, i pensionati pagano il prezzo di tagli. Molti ritengono che non serva a nulla cambiare ancora primo ministro, ma che è il presidente Macron a dover fare un passo indietro. La richiesta di dimissioni di Macron, percepito come il volto delle riforme che favoriscono capitale e grandi imprese, non è un elemento marginale dei cortei, ma un punto condiviso da molti manifestanti, anche se non da tutti i partiti. Cala la fiducia nelle istituzioni ed è per questo che nei cortei si chiede sempre più democrazia. Ed ecco perché, tra le condizioni poste dai socialisti al futuro governo, c’è di rinunciare a strumenti che, benché costituzionali, sono percepiti come autoritari, primo fra tutto il famigerato articolo 49.3 che il governo utilizzò nel 2023 per varare la riforma delle pensioni, senza passare per il voto dei deputati.

Dopo una settimana di consultazioni faticando a formare il suo esecutivo, Lecornu ha accettato di incontrare di nuovo i sindacati nei prossimi giorni. In un comunicato, assicura che sta tenendo conto delle “rivendicazioni dei manifestanti”. Le otto firme sindacali, riunite ancora stamattina, hanno confermato la loro compattezza già sperimentata nella mobilitazione contro la riforma delle pensioni, due anni e mezzo fa. Sono più che mai motivate a battersi per “pesare” sulla preparazione della finanziaria 2026, ha osservato Marylise Léon, segretaria generale della CFDT.

A Matignon arriveranno con la loro lista di richieste: più mezzi per i servizi pubblici, più giustizia fiscale, abbandono della pensione a 64 anni e del progetto di revisione delle regole di indennizzo dei disoccupati, e altro ancora. Per Laurent Frajerman, ricercatore presso il Centre de recherche sur les liens sociaux-université Paris Cité, intervenuto su Le Monde, è come se i rappresentanti dei lavoratori stessero disputando “una sorta di partita di ritorno” dopo la battaglia persa nel 2023 sulle pensioni. Ma questa volta, aggiunge lo storico Stéphane Sirot, il governo e il capo dello Stato si trovano “in posizione di debolezza”: ai sindacati si presenta allora “un’opportunità di riequilibrare il rapporto di forza”.

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