Francesco e il successore che non c'è
- Postato il 19 ottobre 2024
- Di Il Foglio
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Francesco e il successore che non c'è
“Direi che lo Spirito santo non prende esattamente il controllo della questione, ma piuttosto da quel buon educatore che è, ci lascia molto spazio, molta libertà, senza pienamente abbandonarci. Così che il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico, non che egli detti il candidato per il quale uno debba votare. Probabilmente l’unica sicurezza che egli offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata. Ci sono troppi esempi di Papi che evidentemente lo Spirito santo non avrebbe scelto”
Joseph Ratzinger, 1997
Come accade più o meno da cinque o sei anni, il giorno dopo l’annuncio dei nuovi ingressi nel Collegio cardinalizio fatto da Papa Francesco al termine dell’Angelus domenicale la sentenza è stata perentoria: la successione è blindata. Gli oppositori, i nemici di Francesco che s’annidano in quel club esclusivo di porpore (padre Timothy Radcliffe ha però già fatto sapere di aver ottenuto il permesso di non vestire “gli abiti vistosi” di colore rosso) prese da ogni parte del mondo, si rassegnino: con tutte le creazioni cardinalizie fatte in questo pontificato, i giochi su chi verrà dopo Francesco sono fatti. Non c’è niente da discutere o da ipotizzare: dopo Francesco il Primo ci sarà Francesco II, magari pescato in qualche altra lontana periferia. Gli entusiasti brindano, scatenandosi sui social e abusando di aggettivi e superlativi nei commenti relativi all’elenco dei prescelti. Gli scontenti soffrono, chi in silenzio affidandosi allo Spirito santo e chi dando voce alla frustrazione di un Papa che anziché unire Santa madre Chiesa tutela e avvicina a sé solo quelli che la pensano come lui.
Ma è proprio così? Insomma. Francesco, è vero, ha segnato una cesura con il passato rispetto alla scelta di chi far entrare nel Collegio. Prima di lui, i Papi sceglievano non di rado strenui oppositori alle loro idee o linee pastorali, magari dopo averli promossi a capo di importanti diocesi del mondo. Giovanni Paolo II impose la berretta sul capo di Carlo Maria Martini, da lui mandato a Milano. Lo stesso Martini che poi, anno dopo anno, pubblicamente dirà – guardando il declino fisico del Pontefice polacco – che i Papi devono dimettersi per il bene loro e di tutta la Santa Chiesa. Wojtyla che poi innestava nel club, rendendoli elettori, uomini del calibro di Kasper e Lehmann, grandi teologi tedeschi che però avevano la caratteristica di essere in totale opposizione alla sua visione pastorale e dottrinale e che non mancavano di picchiettare l’azione del fidatissimo di Giovanni Paolo II prefetto dell’ex Sant’Uffizio. Benedetto XVI anche: vescovi insigni portati da lui a Roma, in Vaticano, e da lui vestiti di rosso, si beavano nei giorni successivi all’elezione di Francesco d’aver finalmente fatto svoltare la Chiesa. Personalità che condividevano ben poco della linea ratzingeriana ma che furono promossi in curia (caso simbolico, il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, che Benedetto fece prefetto della congregazione per il Clero – non proprio l’ultimo dicastero vaticano – e che fin dal Conclave del 2005 era un acceso sostenitore di Jorge Mario Bergoglio).
Tradimento? Neanche un po’. E’ l’umanissima storia degli uomini di Chiesa, uguale fin da quando tutto è iniziato. Francesco ha scardinato un modello: quanti vengono identificati come non allineati, intanto raramente ottengono una diocesi. E quelli che la diocesi ce l’hanno già e per tradizione sarebbero iscrivibili al Collegio, vengono lasciati da parte. Senza alcuna eccezione. Il generale va in guerra con i suoi uomini, pochi o tanti che siano. Uomini di cui si fida e pazienza se dall’altra parte, gli esclusi, mugugnano. Anche se avrebbero i gradi per poter vestire di rosso. Kasper e Maradiaga hanno sempre detto che il vero obiettivo di Francesco è far sì che quanto iniziato non venga cancellato. La rotta della Barca è impostata e nulla deve farla tornare indietro. Il dogma della riforma irreversibile.
Che però i giochi siano fatti e che il futuro Conclave, quando sarà, sia solo una mera formalità, quasi si trattasse di ratificare quanto a priori deciso, non è credibile. Intanto perché, almeno per chi ci crede, sulle teste degli augusti elettori scende lo Spirito santo a ispirare la scelta: il cardinale Christoph Schönborn, non l’ultimo arrivato, nel 2013 disse d’aver percepito davvero la presenza del Paraclito in Sistina. Altri, meno entusiasti, rivelarono di non aver visto volare neanche una colomba tra le volte affrescate. E poi perché Francesco ha allargato a dismisura il plenum, rompendo ogni tipo di schema immaginabile e tradizionale. Ci sono le periferie, e non è un modo di dire. Ma chi può dire con certezza quale sia l’idea di Chiesa del domani (ma anche dell’oggi) del vescovo di Bogor? O – quand’era ancora elettore – del vicario apostolico del Laos? Inserire in schemi preconfezionati centoquaranta cardinali che non si sono mai parlati tra di loro non solo è superficiale, ma altresì rischioso. Conservatori di qua, pochi e rabbiosi. Progressisti di là, tanti e giubilanti. Che banalità. E’ vero, il Pontefice regnante di certo non ha sostituito i vecchi ratzingeriani con sostenitori accaniti dei dubia e dei relativi proponenti. Ed è vero che ha dato (o darà) la porpora a personalità più vicine alla Teologia della liberazione di Gustavo Gutiérrez che a nostalgici di Hans Urs von Balthasar. L’esempio eclatante di ciò, che riguarderà peraltro il prossimo concistoro del 7 dicembre, è l’arcivescovo di Lima, mons. Carlos Mattasoglio. Fu sospeso dall’insegnamento presso l’Università cattolica peruviana perché appunto teologo della liberazione. Il suo più tenace avversario era il cardinale arcivescovo di allora, Juan Luis Cipriani, conservatore Opus Dei. Francesco ha prima giubilato Cipriani venti giorni dopo il suo settantacinquesimo compleanno, quindi lo ha sostituito proprio con Mattasoglio e infine ha deciso di creare cardinale quest’ultimo.
Ma presentare i giochi come fossero già fatti significherebbe essere smemorati, dimenticando quel che è stata la Storia della Chiesa. Non è tanto questione di bilanciamenti o di calcoli, ma di imprevedibilità. Qualcuno avrebbe mai pensato che a Pio XII sarebbe succeduto colui che avrebbe inaugurato il Concilio? O che un Collegio plasmato da Pio X avrebbe eletto il pupillo del segretario di stato Rampolla, quel Giacomo Della Chiesa cui Papa Sarto concesse la porpora solo pochi mesi prima di morire? Oggi pullulano tabelle e dati, con le cifre di un Conclave che sarà formato da uomini per l’ottanta per cento scelti dal Papa regnante. Ma questo non vuole affatto significare che i prescelti studieranno come portare al Soglio la copia di Francesco. Intanto perché è arduo trovare un alter Franciscus. E poi perché Bergoglio in Sistina non ci sarà più. O perché tornato al Padre o perché rinunciatario e i Papi emeriti, si sa, possono restare sorpresi dal profilo del successore (Benedetto XVI disse d’essere rimasto sorpreso dall’elezione del cardinale bairense, s’attendeva qualcun altro). Per cui, vengono meno i legami di fratellanza e di spirituale figliolanza, nonché i debiti che si riteneva d’avere verso il responsabile della propria creazione.
Ma c’è una questione più profonda che riguarda la Chiesa stessa, divisa come da tempo non si vedeva fra categorie che paiono più fazioni lancia in resta pronte alla pugna che tranquilli cenacoli portatori di punti di vista diversi sui destini dell’uomo e dell’Istituzione ecclesiastica. La rapidità comunicativa e la spesso necessaria semplificazione portano a definire il Collegio cardinalizio “bergogliano”. Ma chi è il cardinale bergogliano? Cosa pensa davvero? Il cosiddetto bergogliano, quando scriverà il nome di colui che vorrebbe vedere Pontefice, è bergogliano perché sostiene la causa di padre James Martin o è bergogliano perché condivide le frasi sui medici “sicari” che compiono gli aborti e cioè “uccidono i bambini”? E’ bergogliano perché ha in testa la causa green e il surriscaldamento climatico o è bergogliano perché ritiene il gender “una bomba atomica contro il matrimonio” e “uno sbaglio della mente umana”? E’ bergogliano perché pensa che la Nato abbai ai confini della Russia o è bergogliano perché pensa che quello che fanno i vescovi tedeschi non sia sinodalità ma sia qualcosa che “va contro la Chiesa cattolica”?
Nei centoquaranta elettori c’è tutto questo, spesso in contraddizione. E ciascuno farà prevalere la propria sensibilità e le proprie priorità. Priorità geografiche, culturali, sociali. Il cardinale brasiliano Steiner, ad esempio, al briefing sinodale in Vaticano ha fatto capire che lui ci tiene all’ordinazione delle diaconesse permanenti e, perché no, a una revisione della prassi sul celibato sacerdotale. Un’altra creatura di Francesco, un altro sudamericano come il cardinale uruguagio Sturla, si è espresso contro Fiducia supplicans e appare più fedele alla prassi vigente, che in ogni caso non è un dogma di fede. E poi, chi sarebbe il Francesco II da acclamare o da eleggere con almeno 94 voti. Perché poi bisogna sempre tenere a mente che il Conclave è una questione di numeri e di conte. E che un Papa oggigiorno va fatto in poco, pochissimo tempo. Un Conclave che si protraesse per quattro, cinque o sei giorni, sarebbe intollerabile: i giornali griderebbero alla Chiesa divisa, spaccata, preda di fazioni. I retroscena abbonderebbero, con ricostruzioni a cavallo fra Dan Brown e qualche immancabile profezia apocalittica o di qualche Madonna apparsa chissà dove a minacciare sciagure e cataclismi sull’umanità intera. Nell’èra della comunicazione istantanea, dove il flusso ininterrotto delle notizie (e delle fake news) tiene incollati gli occhi di tutti sugli smartphone, un silenzio prolungato interrotto solo da qualche fumata a intervalli fissi che spunta dal comignolo della Sistina non sarebbe compreso. Per cui, il tempo a disposizione sarà poco. E in quel poco tempo novantaquattro porporati che per lo più mai prima di quel momento si sono visti e parlati – salvo eccezioni, ça va sans dire – dovranno scrivere sulla scheda da depositare sotto al Giudizio universale uno e un solo nome, lo stesso. Complicato assai.
E’ per questo che le congregazioni generali del pre Conclave, dove l’ultima volta è stata smentita la massima che pareva eterna del cardinale Siri – “Il Papa si fa in Conclave” –, visto che più d’un porporato ha rivelato che in quei giorni di dibattiti l’arcivescovo di Buenos Aires aveva rapito attenzioni e conquistato ammirazioni, risulteranno se non decisive quantomeno rilevanti. Sarà lì che, con interventi brevi e concisi, gli eminentissimi si faranno conoscere e, soprattutto, faranno conoscere agli altri la loro idea di Chiesa. Quali sono le priorità, le istanze che porteranno a Roma le Chiese delle periferie?
Francesco ha scelto di decentrare il Collegio, e inevitabilmente s’avrà un mutamento della prospettiva con cui si guarderanno i problemi. Verrà meno il “predominio” occidentale, il che potrebbe far sì che temi che oggi sembrano dominare il dibattito (dal celibato sacerdotale alle questioni gender), al momento decisivo saranno soppiantati da altri. Come se in realtà le istanze che vanno per la maggiore siano in realtà una bolla destinata a ridimensionarsi allorché il punto all’ordine del giorno non sarà valutare l’opportunità di riflettere sul Cammino sinodale in Germania, ma eleggere il vicario di Cristo in terra. Tutt’altro paio di maniche.
Che di dopo Francesco si parli è naturale, così è sempre accaduto nella storia della Chiesa. I primi libri sui successori ipotetici di Giovanni Paolo II uscirono al principio degli anni Novanta: dei papabili di allora, quasi tutti sono morti prima di Wojtyla. Che i giochi si facciano a Papa vivo, però, è una favola buona per storie Instagram di chi vede nel Vaticano il luogo oscuro e misterioso di cospirazioni ordite e praticate. In questi anni di pontificato, a ogni raffreddore di Francesco circolavano liste di probabili suoi successori. A ogni apparizione in sedia a rotelle, i probabili diventavano quasi certi. All’Angelus con flebo, si contavano i voti del sicuro successore. Un anno dopo, è carta straccia. Va così da sempre, da duemila anni.