Flotilla, il governo svizzero chiede il conto ai propri elvetici
- Postato il 26 novembre 2025
- Di Panorama
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Le fatture inviate dal Dipartimento federale degli Affari esteri (DFAE) agli attivisti svizzeri della flottiglia per Gaza hanno scatenato polemiche. Ma, al di là dell’indignazione espressa dai partecipanti, colpisce soprattutto l’assenza di consapevolezza sulle implicazioni politiche della loro scelta. Le flottiglie dirette verso la Striscia non sono iniziative neutrali: da anni rappresentano uno strumento che Hamas sfrutta abilmente per indebolire il blocco navale e per alimentare la propria narrativa vittimista sul piano internazionale. Chi decide di unirsi a queste missioni non può ignorare questo contesto né stupirsi delle conseguenze.
A partire da questo quadro, la protesta contro le fatture del DFAE risulta difficile da comprendere. Gli attivisti elvetici fermati dalla marina israeliana lo scorso ottobre, mentre tentavano di violare il blocco imposto per evitare l’ingresso di armi nella Striscia, denunciano oggi il fatto che la Confederazione abbia chiesto loro un rimborso per i servizi consolari forniti durante la detenzione. Eppure, il collegamento tra queste missioni e la strategia comunicativa di Hamas è noto da anni, così come lo sono le ripetute raccomandazioni del DFAE a non recarsi in quell’area con iniziative di questo tipo.
Secondo quanto riportato dalla RTS ( non certo neutra durante tutta la guerra) , i 19 svizzeri coinvolti – partecipanti alla Waves of Freedom e, in un caso, alla Thousand Madleens to Gaza – hanno ricevuto fatture comprese tra 300 euro e 1’047 euro. Tali importi riflettono il lavoro consolare necessario: intermediazioni con le autorità israeliane, visite in prigione, verifiche sullo stato di detenzione e assistenza al rientro in patria. Il DFAE spiega che si tratta di servizi standard, ma resi più complessi dal contesto politico e dal fatto che gli attivisti abbiano agito in contrasto con le indicazioni ufficiali della Confederazione.
Nonostante ciò, alcuni partecipanti – come Sébastien Dubugnon intervistato dalla Televisione Svizzera – hanno reagito con toni durissimi, sostenendo che la Svizzera non avrebbe offerto alcun aiuto concreto e criticando come ingiustificata la fattura da 300 franchi ricevuta. Dubugnon ha raccontato che il rappresentante consolare avrebbe potuto fare ben poco durante gli incontri nel carcere di Ketziot, ma omette di ricordare che la missione stessa era una provocazione politica facilmente prevedibile. Partecipare a un’iniziativa regolarmente utilizzata da Hamas per scopi propagandistici e poi lamentarsi dei costi dell’assistenza consolare genera inevitabilmente perplessità.
Le immagini dell’arresto della flottiglia avevano immediatamente fatto il giro dei social e dei media internazionali, contribuendo – anche involontariamente – a uno degli obiettivi di Hamas: alimentare la percezione di un assedio disumano e spingere attivisti occidentali a sfidare Israele in modo simbolico. Ogni convoglio fermato, ogni scontro navale e ogni detenzione diventa parte di un copione mediatico che il movimento islamista sfrutta sistematicamente. È dunque ingenuo credere che queste iniziative siano semplici missioni umanitarie: sono, agli occhi di Hamas, pezzi di una strategia molto più ampia e studiate nei minimi dettagli.
Il DFAE ha confermato che il costo medio per persona si aggira sui 510 euro, precisando che le spese reali sostenute dalla Confederazione erano sensibilmente superiori. Le reazioni degli attivisti sono state dure: c’è chi ha parlato di «vergogna» e chi ha denunciato trattamenti degradanti subiti durante la detenzione peraltro mai provati. Tuttavia, anche questi racconti non modificano la cornice normativa: la Legge sugli Svizzeri all’estero prevede espressamente che i costi dell’assistenza consolare debbano essere rimborsati quando il cittadino agisce con imprudenza o in violazione delle raccomandazioni ufficiali.
Il raffronto con la Turchia, che aveva organizzato un volo charter gratuito per parte dei detenuti, è stato usato dagli attivisti come pietra di paragone. Ma anche in questo caso il paragone è fuorviante: Ankara ha interessi geopolitici profondi nella questione palestinese ed in particolare con il supporto ad Hamas e anche nell’immagine che vuole proiettare nel mondo musulmano. La Svizzera, al contrario, non ha alcun obbligo di sostenere o facilitare azioni che di fatto si inseriscono – volenti o nolenti – in operazioni che Hamas utilizza come grimaldello politico e mediatico. La vicenda solleva così una domanda che va oltre la contabilità consolare: fino a che punto uno Stato deve farsi carico delle conseguenze delle scelte di cittadini che partecipano a missioni sfruttate da un gruppo come Hamas, designato come organizzazione terroristica da numerosi Paesi? La risposta, per molti osservatori, è semplice: la responsabilità individuale non può essere delegata allo Stato quando si tratta di azioni consapevolmente politiche.