Filantropia (al posto delle tasse) e creazione di posti di lavoro (presunti): così la grande finanza giustifica le disuguaglianze globali

  • Postato il 29 settembre 2025
  • Economia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Dall’Europa all’India, dalla Cina alla Russia. Le disuguaglianze economiche crescono ovunque da decenni. La quota di reddito che finisce in tasca al 50% più povero della popolazione mondiale è in calo dal 1820, mentre quella del 10% più ricco aumenta. Negli Stati Uniti, tra il 1989 e il 2021 la retribuzione dei top manager è salita del 1.460% mentre quella di un lavoratore medio appena del 18%. Un manipolo di miliardari detiene la stessa ricchezza della metà più povera dell’umanità. Ma non per tutti la voragine che separa l’1% più facoltoso da tutti gli altri è un problema, una minaccia per la democrazia e per la stabilità sociale. Alcuni la giustificano, altri la celebrano. Con motivazioni trite – la convinzione che il benessere economico individuale sia il giusto trionfo della meritocrazia – o assai più sofisticate: per esempio molti manager di fondi speculativi raccontano a se stessi che fare un sacco soldi nella finanza grazie alle commissioni incassate dai fondi pensione stimola l’imprenditorialità e crea posti di lavoro.

Sono “logiche di accettazione“, spiegano i sociologi Francesco Duina, docente al Bates college, e Luca Storti , professore associato all’università di Torino, in The Social Acceptance of Inequality (Oxford University Press, 2025), che legittimando la disuguaglianza ne assicurano la riproduzione. I due curatori hanno raccolto i contributi di 19 tra docenti e ricercatori europei, americani, cinesi e indiani, con l’obiettivo di tentare per la prima volta un’analisi a tutto tondo su quelle logiche. Che siano culturali (la fede nell’American dream in base alla quale la ricerca del successo è un valore intrinseco), economiche (le disuguaglianze sono effetti non voluti di processi economici nel complesso positivi), etniche (chi appartiene a un certo gruppo è intrinsecamente superiore) o morali, le più insidiose perché presuppongono che la ricchezza sia giusta e meritata ricompensa di un duro lavoro e la povertà il risultato di incompetenza o pigrizia.

Il risultato è affascinante, anche perché la quota di popolazione che corrisponde all’identikit dei “difensori delle disuguaglianze” è minoritaria ma non minuscola: Lucy Barnes, docente alla University College London, analizzando i dati di 29 Paesi evidenzia che si parla dell’8% del campione, un segmento trasversale per età, livello di istruzione, reddito e genere. Anche se in alcune aree la propensione all’accettazione e normalizzazione è molto più marcata. Cary Wu, professore associato alla canadese York University, documenta che in Cina, nel 2019, a giustificare i divari di reddito era oltre il 60% degli abitanti. Mentre nella Svezia nota in passato per le generose politiche di accoglienza Arvid Lindh (università di Stoccolma) trova un diffuso sostegno a misure di welfare discriminatorie nei confronti di migranti.

A calamitare l’attenzione è però il capitolo 3, in cui Megan Tobias Neely, professoressa associata alla Copenhagen Business School e affiliata allo Stanford University’s Women’s Leadership Innovation Lab, entra nelle menti di oltre un centinaio tra manager di hedge fund, venture capitalist e fondatori di startup tecnologiche tra New York, la California e il Texas, intervistandoli e seguendoli ad eventi e incontri di lavoro. Per gran parte di loro la concentrazione di ricchezza non solo non è preoccupante, ma rappresenta una virtù. Per i venture capitalist significa essere in grado di sostenere imprese innovative che potrebbero cambiare il mondo (anche se in realtà i capitali si concentrano su app e software rapidi da monetizzare). O, semplicemente, finanziare infrastrutture e creare lavoro: un benemerito “trickle down” in un mondo in cui “la maggior parte delle persone guadagna il proprio salario e poi se lo spende tutto nel corso della vita”. Per molti manager attivi nei fondi speculativi nel fare “soldi a pacchi” c’è anche un intrinseco valore morale, visto che oltre a garantirgli un attico a Manhattan quel denaro arriverà anche – attraverso donazioni – a università, ospedali, ricerca scientifica. Poco importa se questo concetto di redistribuzione dà per scontato che il molto ricco possa e debba decidere in autonomia chi è più degno del suo caritatevole contributo. E ritenga di essere in grado di farlo in maniera ben più efficiente rispetto a come lo Stato utilizzerebbe i soldi delle sue tasse per finanziare il welfare, attraverso quello che nelle società moderne dovrebbe essere il primo canale di redistribuzione delle fortune.

In settori in cui il profilo tipico è “uomo, bianco, laureato nelle università d’élite”, a esprimere opinioni fuori dal coro sono quasi solo le donne e i manager non bianchi. Una venture capitalist afroamericana sottolinea per esempio come i fondi sostengano quasi esclusivamente startup guidate da uomini bianchi, riproducendo il privilegio. Una donna impiegata nel servizio clienti di un hedge fund smaschera l’ipocrisia della filantropia ex post notando che meglio sarebbe ridurre le commissioni, oggi a livelli stellari, e aumentare così i proventi che vengono girati ai fondi pensione o alle università che affidano i propri patrimoni con l’obiettivo di farli fruttare a beneficio di lavoratori e studenti. Ed è un manager afroamericano a mettere in discussione a sua volta i costi imposti alla clientela, immaginando che alla fine della catena c’è “un investitore individuale che ha messo soldi in un piano pensionistico” e a un certo punto vorrebbe potersi ritirare da lavoro. Mentre oggi spesso scopre di non poterselo permettere. In tutto il campione, solo in un caso a esplicitare una critica al sistema è un uomo bianco: impiegato in un hedge fund, definisce “scandalosa e vergognosa” la tassazione agevolata delle plusvalenze del comparto e condanna le fughe offshore per evitare le tasse. Scappatoie, nota, che hanno la benedizione della politica, con cui la finanza ha relazioni strettissime quanto opache.

Visioni isolate. Ben più rappresentativa l’opinione di Bradley, manager di un fondo speculativo, che si sente il capro espiatorio di un problema ben più vasto. “È facile per i media e per voi 99%“, lamenta, “dire “Guarda casa sua”. Magari è un appartamento da 60 milioni di dollari a New York, o una casa da 40 milioni agli Hamptons… È molto facile guardare a queste cose e dire: “Guarda che eccesso! Non è giusto!”. Ma ad essere in torto, dice, è il 99%. In cerca di qualcuno a cui addossare la responsabilità di decenni di polarizzazione senza redistribuzione.

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