Estate nera: il delitto di Garlasco e il fascino pericoloso del true crime

  • Postato il 10 agosto 2025
  • Di Panorama
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Non è semplice curiosità. È qualcosa di più profondo, quasi viscerale. La cronaca nera non si limita a informare: cattura, inchioda allo schermo, trasforma storie di morte e dolore in un fenomeno capace di rivoluzionare palinsesti, conversazioni quotidiane e persino il modo in cui sogniamo. È un’ossessione collettiva, un guilty pleasure che pochi ammettono apertamente, figlio di un desiderio di sapere e, in fondo, di paura.

Le vittime, spesso giovani donne, le conosciamo per nome. Non sono estranee: diventano come vicine di casa, vecchie compagne di scuola, presenze familiari. La loro storia si insinua nella nostra quotidianità, fino a far parte del nostro vissuto emotivo. E non è un fenomeno nato ieri: da Cogne a Erba, dal caso milanese di Simonetta Cesaroni a quello di Avetrana e della povera Sarah Scazzi, la cronaca nera ha sempre avuto un potere magnetico sulla nostra attenzione.

Negli ultimi anni, però, l’interesse è esploso grazie alla proliferazione di podcast, canali YouTube e serie TV dedicate ai cold case. Produzioni come Making a Murderer o The Staircase hanno trasformato vicende giudiziarie in racconti avvincenti, dove la linea tra verità processuale e narrazione seriale diventa sfumata, e lo spettatore si ritrova a fare il detective dal divano di casa.

Tra le uscite più discusse, Monster di Ryan Murphy (sul caso dei fratelli Menendez), Qui non è Hollywood – la controversa serie tv sul delitto di Avetrana e l’imminente serie su Amanda Knox (in arrivo il 20 agosto), che rielabora uno dei casi più controversi degli ultimi decenni, promettono nuove prospettive sul fragile equilibrio tra realtà e percezione pubblica.

E poi c’è Garlasco. Forse il paradigma più emblematico di questa “passione tossica”. Due ragazzi di provincia, un’indagine costellata di errori, retroscena inquietanti, processi infiniti e teorie – tra le più disparate – che si intrecciano in un intricato labirinto. Un vero e proprio “bar sport” giudiziario, dove il confine tra colpevolezza e innocenza si assottiglia, alimentato da pregiudizi, gossip e suggestioni complottiste. Un mix che ha catalizzato l’attenzione di milioni di persone, soprattutto donne: tra i giovani, il 61% del pubblico femminile segue podcast di true crime, contro il 30% maschile.

La psicologia offre una chiave di lettura: molte donne si identificano nelle vittime, vivono questi racconti come strumenti per comprendere come proteggersi, ma anche per esplorare il lato oscuro della natura umana a distanza di sicurezza. Altre, invece, sviluppano empatia per i “mostri” — un fenomeno antico, basti pensare al fascino esercitato da figure come René Vallanzasca, Ted Bundy o Richard Ramirez.

Ma l’ossessione ha un prezzo. George Gerbner, teorico della comunicazione, ha definito “sindrome del mondo cattivo” quella sensazione di ansia, diffidenza e paura generata dal consumo eccessivo di cronaca nera. La spettacolarizzazione estrema rischia di banalizzare la tragedia, alimentando visioni distorte e complottismi.

Eppure, raccontare il male rimane anche un atto di libertà. Nei regimi autoritari, la cronaca nera viene spesso censurata, perché incrina l’immagine artificiale di una società perfetta e sotto controllo.

Così, il caso di Garlasco non è più soltanto un episodio di cronaca giudiziaria. È diventato uno specchio delle nostre paure e del nostro bisogno di giustizia, ma anche della nostra vulnerabilità e della fascinazione per l’oscurità. Finché la verità definitiva non emergerà — se mai accadrà — resterà come un’ombra inquietante sul volto di una società che non smette di guardare nel buio.

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Panorama

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