Emily Ratajkowski, una vita in bikini tra pseudo femminismo e molta ipocrisia
- Postato il 24 luglio 2025
- Di Panorama
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Ogni immagine di Emily Ratajkowski è un evento mediatico. L’ultima, pubblicata su Instagram, la ritrae con un costume da bagno micro, tagliato a esaltare ogni curva con chirurgica intenzione. Il post ha raccolto in poche ore migliaia di like e commenti, confermando — se mai ce ne fosse stato bisogno — la potenza visiva e commerciale del corpo di Emily. Ma dietro a quel gesto, solo in apparenza frivolo, si cela una delle dicotomie più emblematiche della cultura contemporanea: quella tra il desiderio di autodeterminazione e la dipendenza da uno sguardo ancora profondamente maschile.
Emily Ratajkowski non ha mai negato di usare il proprio corpo come mezzo di lavoro, di comunicazione, di affermazione. Fin dai tempi del video Blurred Lines, che l’ha catapultata nel cuore del mainstream, ha giocato sul confine tra seduzione e provocazione, consapevole del potere che l’immagine esercita sul desiderio e sul mercato. Nel tempo, però, quel corpo ha smesso di essere solo un oggetto estetico: si è trasformato in materia di riflessione politica, culturale, femminista.
Eppure, proprio qui si apre la frattura. Perché l’immagine di Emily, per quanto guidata da una volontà autonoma, continua a inscriversi nei codici del male gaze, lo sguardo maschile che domina l’immaginario visivo da secoli. Bikini iperminimale, posa studiata, controllo maniacale del dettaglio: ogni elemento sembra pensato per aderire perfettamente a uno specifico ideale estetico, alimentando un sistema che premia la donna-oggetto, anche quando è lei a imporsi come soggetto. In uno dei passaggi più lucidi del suo libro My Body, l’autrice stessa riconosce i limiti di quel potere solo apparente: «Non avevo alcun vero potere come la ragazza nuda che ballava in giro», scrive nell’omonimo saggio dedicato a Blurred Lines. «Non ero altro che una modella assunta, un manichino a noleggio».
Emily Ratajkowski si è spesso definita femminista, un’etichetta che ha rivendicato con forza anche nel suo percorso editoriale, denunciando la strumentalizzazione del corpo e le contraddizioni dell’industria dell’immagine. Ma la sua estetica, iper-curata e fortemente sessualizzata, continua a suscitare interrogativi: può davvero coesistere una rivendicazione politica con una strategia visiva che resta vincolata alle regole del patriarcato?