Elliott Erwitt arriva (anche) a Palermo. La retrospettiva a Palazzo dei Normanni
- Postato il 8 settembre 2025
- Fotografia
- Di Artribune
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Prima volta a Palermo per uno dei grandi maestri della fotografia americana. Elliott Erwitt (Parigi, 1928 – New York, 2023) membro fin dal ’53 della scuderia Magnum, ha firmato alcune tra le immagini più iconiche del secondo Novecento, frutto di una straordinaria capacità di tradurre la realtà in illuminazioni rapide, efficaci, intrise di magia, ironia, intelligenza visiva e acume introspettivo. Facendo del tempo e dello spazio materia duttile e immaginifica. Organizzata dalla Fondazione Federico II a Palazzo Reale, curata da Biba Giacchetti e Gabriele Accornero, la mostra è un tributo composto da 180 immagini, di cui 115 stampate e oltre 70 proiettate a monitor. Un percorso che dai più celebri bianchi e neri, collocati al centro della sala Duca di Montalto, giunge a ricca selezione a colori lungo le pareti. Si restituisce così il senso di una ricerca che ha attraversato decenni, rinnovandosi tra contesti e linguaggi eterogenei, sempre inseguendo la combinazione perfetta, l’istante miracoloso che l’occhio allenato e la sensibilità più acuta sono in grado di afferrare e rigenerare. “La fotografia”, disse, “è il momento, la sintesi di una situazione, l’istante in cui tutto combacia. È l’ideale fuggevole“.
La mostra di Elliott Erwitt a Palermo
Dagli USA all’Europa, passando per Cuba con i mitici ritratti di Che Guevara, scorre un catalogo visivo che è specchio di un’epoca, delle sue evoluzioni e contraddizioni, tra scampoli di glamour, seduzioni metropolitane, frammenti evocativi di paesaggio e agiatezza borghese, senza dimenticare scene di marginalità e iniquità sociale. Sono molte le foto dedicate a personaggi dello spettacolo e dell’alta società. Marilyn Monroe, ad esempio, di cui Erwitt seppe cogliere il misto di brio e di tristezza, la tenerezza infantile, l’intelligenza curiosa e la freschezza offuscata dalla troppa fama e da un dolore latente. Tra i vari ritratti che le dedicò, uno la coglie pensierosa, evanescente, lo sguardo basso e le labbra socchiuse tra un principio di sorriso e un indizio di malinconia: uno scatto impreciso, mosso, realizzato in Nevada nel 1960, forse durante i lavori per The Misfits, il suo ultimo film, sceneggiato dal marito Arthur Miller. Su quel set problematico Erwitt, in veste di fotografo ufficiale, tirò fuori una scena corale perfetta, divenuta celebre: attori, regista e sceneggiatore, disposti con ordine di fronte all’obiettivo, sono comparse rigide, tra loro sconnesse, ognuno nella propria bolla a dissimulare drammi personali e idiosincrasie. Memorabile anche il ritratto di Jaqueline Kennedy ai funerali del marito, il Presidente John Fitzgerald Kennedy: tailleur scuro, veletta, lo sguardo nel vuoto e un dolore composto; ma osservando da vicino l’attenzione cade sul dettaglio di una lacrima, prodigiosamente congelata nell’aria, quasi un cristallo che si stacca dal viso nell’attimo in cui la donna si volta di scatto.
Gli scatti di Elliott Erwitt, dallo spettacolo alla politica
Tutt’altre atmosfere con Arnold Schwarzenegger e i suoi muscoli guizzanti, sfoggiati dinanzi a una folta platea, nel 1976. Non un evento sportivo, ma una performance al Whitney Museum di New York, dal titolo Articolare i muscoli: il corpo maschile dell’arte, dove l’allora giovanissimo attore-culturista si esibiva come statuario feticcio a metà tra cultura pop e reminiscenze classiche. Casuale invece lo scatto in cui Richard Nixon conversa con Chruščëv, puntandogli il dito contro, durante una fiera di prodotti americani a Mosca. Nixon, urtando non poco Erwitt, usò lo scatto per la sua campagna elettorale. Una piccola storia che richiama il tema della manipolazione delle immagini da parte del potere e del rapporto tra politica e comunicazione.
La fotografia come dispositivo del ricordo
Immancabili le scene più liriche e popolari, come la danza sotto la pioggia davanti alla Tour Eiffel, scattata nel 1989, tra un abbraccio d’amore e un volteggio a mezz’aria: un teatro d’ombre e di specchi, nel ritaglio delle sagome scure e nei riflessi sull’asfalto bagnato. O come l’incontro tra due amanti dentro un’automobile, di cui la foto svela un solo dettaglio, incastonato nel paesaggio: registrato nel 1955 su una spiaggia della California, quel bacio diventa una magica miniatura nello spazio circolare di uno specchietto retrovisore. Ed è frequente, per Erwitt, il ricorso a vetri e finestre, finezze di stile da cui emerge anche un pensiero sulla fotografia, dispositivo del ricordo e della visione che mescola presenza e assenza, consistenza del reale e ambiguità del doppio, là dove cronaca e interpretazione si inseguono, si contraddicono, si fanno discorso poetico.

Questioni razziali e dimensioni familiari
Indimenticabile una delle foto che meglio hanno incarnato il razzismo nell’America degli Anni Cinquanta, con quei due lavandini in un bagno pubblico, uno pulito e refrigerato, l’altro sporco e dotato di un solo rubinetto. Nelle due scritte WHITE / COLORED e nella figura curva di un uomo di colore, rispettoso delle regole, c’è tutto il racconto di una disumanità fondata sulla negazione dei diritti e sulla prevaricazione sociale. Perfetto il dialogo con il ritratto di un bambino afroamericano, che per gioco si punta una pistola alla testa, e con quello di un bimbo dalla pelle chiara, sorpreso dentro un’auto, nell’esatta sovrapposizione prospettica tra l’occhio destro e il buco di un proiettile sul vetro del finestrino. Registro intimo e affettivo per lo scambio di sguardi tra la piccola Ellen, appena nata, e la madre Lucienne, figlia e moglie di Erwitt, fotografate nel ’53. La tenerezza di un’istantanea di famiglia e la perfezione di un’icona pittorica, disegnata tra il silenzio e la penombra. Ricorrenti poi gli amatissimi cani, protagonisti di scatti buffi o surreali, e tante le fotografie a colori: reportage esteri, dialoghi muti ed eloquenti tra opere d’arte e visitatori di musei, campagne istituzionali, tra cui quella degli Anni Cinquanta destinata a rinnovare l’immagine di Puerto Rico, catturandone scene rassicuranti e amene; e poiservizi per riviste di interior design e geniali esempi di pubblicità in cui si accende la sferzante ironia del maestro, insofferente ai cliché della moda, ribaltati in racconti non conformi, divertenti, a volte solcati da velati spunti critici.
Elliott Erwitt, tra mostra mainstream e progetti cultuali di ricerca
La mostra a Palazzo dei Normanni II si discosta, per quantità di opere e selezione, dal longevo progetto itinerante Icons, curato sempre da Giacchetti, sintesi della vasta produzione in bianco e nero dell’artista: una di quelle esposizioni “pacchetto” portate in tour in lungo e in largo, anche per molti anni, con finalità didattiche. A Palermo si è scelta una via diversa, cucita sullo spazio e più vicina all’idea di retrospettiva. Una delle molte retrospettive organizzate in Italia, in verità: da quella al Forte di Bard nel 2016, a quelle nella Reggia di Venaria (2019) o al Museo Diocesano di Milano (2022). Per Palermo resta certo una novità, un’occasione per ammirare un gran numero di foto celebri e meno note, tutte di valore, restando in ogni caso nel perimetro di una formula monografica e compilativa, modulata e rimodulata senza sosta.
Comprensibile che una realtà come la Fondazione Federico II punti su nomi popolari e partner forti, per costruire eventi dalle strutture agili e di sicuro richiamo per turisti e residenti. Ma a proposito di politiche culturali, di impegno per il territorio e di internazionalità, sarebbe un grande merito riuscire ad affiancare a questa linea più mainstream un ulteriore livello dedicato a progetti nativi, di ricerca, con tagli scientifici importanti e direzioni critiche originali, tra voci autorevoli di diverse generazioni. Una novità urgente, nel vuoto crescente di riforme, di programmazione e di scelte qualitative, in cui affonda il fragile sistema dell’arte contemporanea siciliana.
Helga Marsala
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