È uscito in libreria un dizionario delle arti performative
- Postato il 21 aprile 2025
- Editoria
- Di Artribune
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Il Dizionario Taroni-Cividin – Concetti e pratiche performative (Bulzoni editore, Roma 2024) rischia di diventare come il Devoto-Oli (il famigerato vocabolario della lingua italiana ben noto agli studenti dei licei): pochi ricordano i nomi propri dei due autori, ma tutti usano il libro che hanno scritto. Così, questo dizionario della performance è davvero insieme personale (nella seconda parte del libro vengono ricostruite le performance del duo Taroni-Cividin attivo tra il 1976 e il 1984) e universale, dato che i lemmi spaziano da Memoria a Rivelazione, da Evento a Straniamento, passando per Sublime, Fuoco Gesto e finendo con l’icastico Zero.
Intervista a Roberto Lucca Taroni
Come si è formato il duo e come avete iniziato a fare performance?
Ci siamo conosciuti da ragazzi nel 1976 quando Luisa si era momentaneamente trasferita a Milano da Trieste per seguire un percorso di studi. Quasi subito dopo esserci conosciuti abbiamo deciso di provare a collaborare per un progetto di installazione-performance. Siccome avevamo bisogno di uno spazio abbastanza grande per sperimentare alcune idee abbiamo preso due ambienti all’interno dell’allora casa occupata di via San Sisto 6 a Milano. Dopo la gestazione, in forma laboratoriale, di Putredo Paludis, quella nostra prima installazione-performance, quegli stessi ambienti sono stati aperti anche a interventi di altri artisti internazionali da noi invitati, diventando uno spazio no-profit assai considerato in quegli anni e denominato Sixto Notes.
Cos’era il Sixto Notes negli anni a cavallo fra Settanta e Ottanta?
Sixto Notes è stato, in ordine di tempo, il secondo spazio no-profit in Italia. L’altro fu Zona a Firenze, anch’esso autogestito da artisti. All’inizio, con il nome di Centro di Via San Sisto 6, la programmazione la facevamo solo io e Luisa Cividin, che lo avevamo fondato. Dopo poco tempo, però, si sono aggiunti anche altri due artisti, Ferruccio Ascari e Daniela Cristadoro, e mio fratello Franco e il luogo ha cambiato nome in Sixto Notes. Penso che Sixto Notes abbia rappresentato un caso abbastanza rilevante nell’arte contemporanea italiana di quegli anni e, in particolar modo a Milano, diventò anche una sorta di paradigma cui riferirsi da parte di altre iniziative analoghe successive alla nostra. Penso alle esperienze del Vidicon e del Virus, prima, e poi a Facsimile. Dico questo per espressa ammissione di chi, come Arturo Reboldi o Horatio Goni, hanno fondato e animato questi altri centri.
Perché Sixto Notes è stato importante?
L’importanza di Sixto Notes ha avuto molteplici declinazioni. La prima è quella di avere centrato la propria attività sulle espressioni sonore, performative e video-cinematografiche di artisti internazionali che avevano poche possibilità di presentare il proprio lavoro nei canali ufficiali del sistema dell’arte italiano di quegli anni. La seconda è di avere presentato in Italia lavori di artisti internazionali molto considerati all’estero allora ma non ancora visibili in Italia. La terza è quella di avere attivato alcune iniziative, come la rassegna Audioworks, che poi hanno portato a rassegne di fondamentale importanza quale, ad esempio, la mostra Sonorità Prospettiche, una delle prime a livello mondiale nell’ambito di quella che con estrema semplificazione definiamo Sound Art. Infine, un grande vanto di Sixto Notes è quello di avere dato visibilità ad artisti molto giovani o con un lavoro radicale di difficile collocazione nel mercato.

E poi?
La seconda ragione è che per noi era importante come metodologia, come atto di devianza dal senso già dato che diventava modalità di lavoro per strutturare il sistema di versioni intorno al quale si creavano le singole performance che di volta in volta si succedevano. Questo sistema di versioni-variazioni faceva in modo che lo sviluppo dell’intero corpus di lavori avesse ogni singola installazione-performance come particella di un unicum. E la cosa interessante è che ognuna di queste particelle aveva una dislocazione spazio-temporale sempre differente e persone che la vivevano diverse ogni volta. Potrei dire che, a tutti gli effetti, noi abbiamo fatto una unica performance divisa in trenta momenti. La terza ragione è che questo metodo dell’autocitazione si collegava perfettamente a quell’idea di Esperienza cui accennavamo prima e a un altro concetto-cardine che era l’Autoregolamentazione, un vero e proprio cambio di paradigma che dal classico rapporto soggetto/predicati porta a una relazione tutto/parti. Visti il trauma, la devianza, la perturbanza e l’abuso linguistico al centro del nostro lavoro, potrei fare un gioco di parole dicendo che l’Autocitazione era tanto per versioni, quanto perversioni.
A quali artisti dedicheresti questo lavoro (che ricordiamolo è frutto della collaborazione veramente strategica con Daniele Vergni)?
A tutti quegli artisti che hanno stimato o fiancheggiato il nostro lavoro e a quelli che, in alcuni casi, hanno interagito con esso.
Rileggendo il vostro incredibile repertorio di performance si ha l’impressione di essersi perso qualcosa – penso a Eclat, a Décalage, a Come chiarità di diamante – verrebbe voglia di rivederle tutte – dal vivo intendo…. voglio dire: questo Dizionario è il sigillo di un archivio o un dispositivo ancora utilizzabile in futuro?
Se per riutilizzo intendi quello che molti definiscono reenactment, per il lavoro di Taroni-Cividin questo non è applicabile perché penso che la pratica della riproposizione si incentri sull’idea di rappresentazione e non sull’idea di presentazione che era al centro, invece, delle nostre installazioni-performance. Voglio dire che il nostro lavoro era, da una parte autenticamente speculativo, dall’altra poneva come ruolo centrale la immaginazione. Diciamo, deleuzianamente, che era un dar da pensare che è un immaginare. E tutto poteva avvenire solo in quel tempo e quello spazio determinati. La rappresentazione agisce su un piano psicologico di riproposizione al di fuori del tempo e dello spazio determinati. A mio avviso quello che avviene oggi con il reenactment delle performance di tanti anni fa innesta pratiche e concetti di tipo teatrale su un materiale proprio dell’arte visiva. E questo può funzionare solo se quelle performance avevano già all’origine un impianto teatrale. Questo, ad esempio, vale per quasi tutta la Body Art e per molte esperienze, anche nostrane, che erano catalogate come performance art ma, invece, erano piccole pièce teatrali. Le nostre installazioni-performance erano e restano, invece, all’interno della pratica artistica live.
A cosa pensi possa servire infine il vostro Dizionario?
Penso che possa essere una sorta di “magazzino” concettuale per rimettere in circuito alcune idee che ritengo siano centrali anche, e soprattutto, oggi. È una “dispensa” di concetti che funge da piccolo tassello in una visione anti-riduzionistica che intende negare l’esistenza del semplice o, almeno, che lo ritiene comunque una certa forma del complesso e del suo farsi. Infine, penso che possa essere utile e interessante per chi, sia esso o praticante o studioso o appassionato dell’arte, contrasti la dismissione della distanza critica. Un prontuario per lemmi e esempi pratici per un’epoca in cui, nietzscheanamente, la realtà è diventata favola.
Marco Senaldi
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