“E’ una malattia multiforme, è così che riesce ad eludere le cure perché”: cos’è il glioblastoma, il tumore che ha ucciso Sophie Kinsella

  • Postato il 12 dicembre 2025
  • Salute
  • Di Il Fatto Quotidiano
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La scomparsa di Sophie Kinsella, autrice amatissima di I love shopping e voce ironica e brillante della narrativa contemporanea, ha scosso lettori e colleghi. Aveva 55 anni e da oltre due anni conviveva con un glioblastoma, uno dei tumori cerebrali più aggressivi. Nonostante l’intervento chirurgico seguito da radioterapia e chemioterapia, la malattia ha continuato a progredire, come spesso accade per questa forma tumorale che tende a infiltrarsi nel tessuto sano e a recidivare rapidamente. Ma cosa rende il glioblastoma un tumore così aggressivo e difficile da curare?

Una malattia con tante forme di espressione

“Bisogna dire che i miglioramenti negli ultimi anni ci sono stati, ma restano limitati perché il glioblastoma è una malattia biologicamente molto complessa – spiega al FattoQuotiiano.it il professor Alessandro Olivi, già professore Ordinario di Neurochirurgia, Università Cattolica Sacro Cuore, e Direttore del Dipartimento di Neuroscienze della Fondazione Universitaria Policlinico Gemelli -. Come indica il termine completo della malattia – glioblastoma ‘multiforme’ -, il tumore presenta molte forme di espressione. Il patrimonio genetico alterato genera popolazioni diverse di cellule tumorali, ciascuna con comportamenti differenti. Una terapia può colpire quindi un gruppo di cellule, ma un altro sottogruppo può riprendere a crescere. Non è una neoplasia uniforme: elude i trattamenti non perché non funzionino, ma perché non riescono a colpire tutte le componenti della malattia”.

Sintomi, aree cerebrali e decorso

Quanto conta la zona del cervello colpita nel determinare sintomi e prognosi?
“Un tumore nella zona fronto-temporale sinistra può dare difficoltà di linguaggio (nei destrimani) e talvolta disturbi motori; nelle regioni posteriori emergono deficit motori e/o sensitivi; a livello occipitale si possono manifestare disturbi del campo visivo. Alcune aree meno eloquenti permettono al tumore di crescere prima che compaiano sintomi. Si aggiungono i sintomi irritativi, cioè crisi epilettiche dovute alla reazione dell’attività elettrica del cervello circostante alla lesione. Cefalea, nausea e vomito possono presentarsi in qualsiasi fase, a seconda dell’estensione del tumore”.

Quali sono oggi le terapie più efficaci e che spazio hanno le opzioni innovative?
“Il trattamento standard parte dalla chirurgia per ottenere una citoriduzione, sapendo che la rimozione completa non è possibile. Seguono radioterapia e chemioterapia orale. Sul fronte sperimentale si studiano immunoterapie e terapie geniche virali. Ho lavorato anche su polimeri biodegradabili che rilasciano farmaci localmente dopo l’intervento: hanno dato risultati positivi, ma solo parziali. La vera novità è la caratterizzazione molecolare, che permette di individuare sottogruppi più sensibili a terapie mirate. Non è ancora risolutiva, ma apre prospettive più precise”.

Recidive, sopravvivenza e falsi miti sulle cause

Come si monitora il paziente dopo il trattamento e quali segnali vanno presi sul serio?
“Il follow-up deve essere stretto: anche senza sintomi è necessaria una risonanza ogni due o tre mesi. Valutiamo sia la clinica sia l’imaging. Nuovi deficit, crisi epilettiche o alterazioni neurologiche impongono attenzione immediata. Quanto alla sopravvivenza, trent’anni fa parlavamo di 12-15 mesi; oggi siamo, in media, intorno ai 20, con variazioni individuali significative. Ho seguito recentemente un caso di un paziente che ha vissuto quasi cinque anni con buona qualità di vita, grazie alle caratteristiche molecolari del suo tumore, più sensibili ai trattamenti attualmente disponibili”.

È possibile prevenire il glioblastoma?
“Purtroppo no: non conosciamo fattori di rischio modificabili specifici. Le teorie che collegano il glioblastoma all’uso del cellulare non hanno basi scientifiche: se fosse vero, dall’enorme aumento nell’uso dei telefoni dagli anni Novanta avremmo visto un’impennata nell’incidenza, e questo non è accaduto. Le radiazioni ionizzanti ad alte dosi sono un fattore noto, ma riguardano situazioni molto particolari. L’ambiente può favorire mutazioni, ma la differenza la fa la capacità individuale di riparare i danni al DNA. Per cui non esistono indicazioni comportamentali utili alla prevenzione. Anche la diagnosi precoce ha un valore relativo: anticipa l’intervento, ma non cambia l’aggressività intrinseca della malattia”.

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