Due arresti per usura ed estorsione in Emilia, minacce in dialetto calabrese

  • Postato il 6 marzo 2025
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Due arresti per usura ed estorsione in Emilia, minacce in dialetto calabrese

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«Se uno non vuole pagare, lo porto dal mio amico», di origine calabrese gli indagati per un giro di usura ed estorsione in Emilia


CUTRO – «Se uno non vuole pagare, lo porto in un ufficio e insieme a questo mio amico gli faccio capire cosa succede». Le vittime erano imprenditori operanti nel Reggiano, meta dell’esodo di migliaia di emigrati dal Crotonese, ma le minacce erano in dialetto calabrese ed erano volte a riscuotere crediti usurari con tassi vorticosi, che lievitavano fino al 177,50% del capitale “prestato”. Per questo i finanzieri del Comando provinciale di Reggio Emilia e di altri Reparti specialistici del Corpo e dello Scico, nell’ambito di un’inchiesta avviata nell’agosto 2024, hanno eseguito tre misure cautelari con le accuse, a vario titolo, di estorsione, usura e favoreggiamento. Ma gli indagati sono in tutto cinque.

GLI INDAGATI E L’INCHIESTA

In carcere è finito Giambattista Di Tinco, imprenditore reggiano di 50 anni, già arrestato, un anno fa, nell’operazione Minefield, con cui venne sgominata un’associazione a delinquere dedita alla creazione di società cartiere i cui capi erano considerati i fratelli Gionata e Samuel Lequoque, originari di Isola Capo Rizzuto. Il primo episodio di usura venne scoperto ad agosto in seguito alla denuncia di una vittima che ammise di essere coinvolto in quel giro di fatture per operazioni inesistenti.

Agli arresti domiciliari, invece, Salvatore Iemmello, residente a Reggio Emilia ma nato a Chiaravalle Centrale, ritenuto il braccio destro del principale indagato in quanto avrebbe svolto funzioni di “esattore”. Divieto di dimora in tutti i Comuni dell’Emilia Romagna per la 41enne Filomena Arabia, moglie di Di Tinco, accusata di favoreggiamento poiché, durante le visite nel carcere di Taranto, avrebbe favorito contatti tramite videochiamate tra lo stesso Di Tinco e Iemmello. Indagati anche altri due cutresi residenti nel Reggiano, Mario Falbo, 54enne, e Nicola Arabia, 48enne.

Insieme al suo entourage, Di Tinco si sarebbe reso responsabile di numerosi episodi di usura ed estorsione nei confronti di almeno quattro imprenditori con la riscossione di interessi usurari per un importo di circa 413.000 euro. Nel corso dell’operazione è stato eseguito un sequestro di denaro e beni per il valore dell’attività illecita contestata. I soldi, in un caso, erano nascosti in una lavatrice (ma i metodi per “ripulirli” erano altri).

USURA ED ESTORSIONE IN EMILIA, LE MINACCE DEGLI INDAGATI DI ORIGINE CALABRESE

L’indagine nasce dagli sviluppi dell’operazione “Minefield”, quando venne fuori che gli indagati avrebbero riscosso crediti usurari con interessi di oltre 50 mila euro ai danni di un imprenditore di origine campana, in evidenti difficoltà economiche e vittima di minacce e violenze. Successivamente è emerso che Di Tinco, nonostante fosse sottoposto agli arresti domiciliari, si sarebbe rimesso all’opera fornendo indicazioni ai coindagati. Le vittime di usura ed estorsione avrebbero contratto complessivamente debiti per oltre 150 mila euro.

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«Se uno non paga lo porto in questo ufficio con un mio amico e vediamo cosa succede». Quell’amico era un certo “Gino”, forse indicato in Falbo. Non viene contestata l’aggravante mafiosa ma gli inquirenti ritengono che gli indagati si muovessero in un contesto di contiguità alla criminalità organizzata. Qualcosa del genere emerse anche all’esito dell’operazione Minefield. «Non è una ‘ndrangheta vera e propria ma c’è una parte di ‘ndrangheta», diceva uno degli indagati. Le minacce, però, non erano larvate. «Ho paura per te». «Non posso sempre pararti il culo».

Il riferimento era alla pericolosità delle persone da cui veniva il capitale prestato. «Si erano incazzati». Tutto ciò nonostante le vittime lamentassero di trovarsi in difficoltà economica. «Non so più dove sbattere la testa», diceva uno degli imprenditori vessati. «Temevo che mi spezzassero le gambe», ha riferito agli inquirenti uno dei denuncianti ormai esasperati. Le vittime avevano bisogno di liquidità perché c’erano i fornitori da pagare. E Di Tinco incalzava. «Non è facile trovare 70mila euro in contanti», ha spiegato sempre una delle vittime.

IL CAPO

Il gip di Reggio Emilia Luca Ramponi ha ritenuto che quella in carcere fosse la misura più idonea per soddisfare le esigenze cautelari nei confronti di Di Tinco. Gli inquirenti ritengono che continuasse ad avere rapporti con il sodalizio colpito con l’operazione Minefield poiché nel corso di una perquisizione gli hanno sequestrato 100mila euro. Era già stato coinvolto nell’operazione Bilions, con cui fu demolita un’altra piramide di cartiere. E a una delle vittime avrebbe suggerito di fare fatture false. A ciò si aggiunga che, con l’ausilio della moglie, nonostante i divieti imposti avrebbe continuato a commettere gli stessi reati. E che utilizzava la propria abitazione come punto di riferimento per i contatti tra i coindagati.

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