Dove sono gli artigiani della pace

  • Postato il 20 giugno 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzaarella

Dove sono gli artigiani della pace? Non è solo una domanda. È un grido, un’accusa, una preghiera. È la voce di chi guarda il mondo oggi e non riesce a capire come siamo potuti arrivare a tanto. Ogni giorno siamo bombardati da immagini di morte, notizie di conflitti, scenari apocalittici che sembrano usciti da racconti distopici, eppure sono realtà quotidiana. Gaza, Ucraina, Yemen, Sudan, ma anche le periferie dell’Occidente, dove si muore non solo di armi ma di indifferenza, solitudine, miseria spirituale. E allora ci chiediamo: è rimasto qualcuno che costruisce pace? Esistono ancora quelli che, senza urlare, scelgono di tessere relazioni, accogliere il diverso, sanare i conflitti? Esistono ancora donne e uomini che, senza riflettori, lavorano come artigiani dell’umano, ricucendo pezzo dopo pezzo ciò che il potere, l’avidità e la paura hanno lacerato?

La pace, quella vera, non è una firma in calce a un trattato. Non è una fotografia con le mani strette tra leader sotto le bandiere. La pace vera è una scelta quotidiana. È una forma di resistenza. È un atto rivoluzionario. E soprattutto, è un lavoro. Un lavoro lento, faticoso, silenzioso. Come quello dell’artigiano, appunto. Colui che conosce la materia, la tocca, la plasma, la rispetta. Che non si accontenta di risultati immediati, ma lavora con cura e pazienza, fedele a un progetto che spesso non vedrà compiuto. Gli artigiani della pace non si vedono nei telegiornali. Non vincono premi prestigiosi. Ma senza di loro, il mondo crollerebbe.

Sono persone comuni. Sono insegnanti che decidono di non lasciare nessuno indietro. Sono volontari che accompagnano i migranti in un labirinto burocratico fatto per respingerli. Sono operatori sociali che rischiano la pelle per strappare un ragazzo alla strada. Sono giovani che, in piena epoca digitale, scelgono l’empatia come linguaggio e la cura come militanza. Sono credenti che pregano con altri credenti di fedi diverse. Sono laici che si oppongono al razzismo con la testimonianza della propria vita. Sono preti che aprono le porte della canonica anche agli esclusi. Sono imam, rabbini, suore, sindacalisti, educatori, madri, padri, attivisti, giornalisti, artisti, pastori, operai, studenti. Non sono eroi, non sono santi. Ma sono necessari.

Il paradosso più doloroso del nostro tempo è che la pace è evocata da tutti, ma costruita da pochi. La parola “pace” è usata nei discorsi ufficiali, nelle campagne pubblicitarie, perfino nelle strategie militari. Tutti la vogliono, a patto che non costi nulla. A patto che non ci chieda di cambiare. A patto che non disturbi il nostro potere, la nostra supremazia, la nostra sicurezza. Ma la pace autentica è esattamente l’opposto: disturba, mette in discussione, ci costringe a cambiare pelle, a rinunciare al dominio, ad accettare la fragilità.

In realtà, il lavoro della pace è scomodo. È un mestiere ingrato, perché richiede di stare nel mezzo del conflitto senza scappare. Di ascoltare entrambe le parti. Di cercare il punto di incontro anche quando tutto spinge verso la vendetta. Di disarmarsi per primi. Di pagare il prezzo della fiducia, anche quando è tradita. Per questo gli artigiani della pace sono spesso soli. Non fanno rumore. Vengono derisi, ignorati, a volte osteggiati. Ma la loro forza è invincibile: perché non viene dall’alto, ma dal basso. Non viene dall’autorità, ma dalla coerenza. Non viene dall’odio, ma dall’amore.

E sì, anche l’amore è una parola abusata. Ma c’è un amore che non è sentimento vuoto o poesia zuccherata. È l’amore che sa patire, che sceglie di restare, che si fa responsabile. L’amore che, come dice il Vangelo, “dà la vita per i propri amici”. E per i propri nemici. L’amore che si sporca le mani, che piange con chi piange, che ascolta anche chi ci ha ferito. L’amore che non è debolezza, ma coraggio estremo.

In questo scenario disumano in cui viviamo, gli artigiani della pace esistono. Sono dappertutto. Alcuni hanno fatto scelte radicali: missionari nei luoghi dimenticati, cooperanti sotto le bombe, monaci in terre ostili. Altri operano nelle città: chi accoglie i senzatetto, chi accompagna le vittime di violenza, chi educa i giovani al pensiero critico, chi costruisce percorsi di riconciliazione tra etnie, culture, religioni. C’è chi traduce la pace in economia solidale, in agricoltura rigenerativa, in giustizia riparativa. Ci sono cooperative sociali che trasformano ex detenuti in panettieri. Ci sono scuole che insegnano la gentilezza. Ci sono carcerati che si riconciliano con le loro vittime. Ci sono famiglie che accolgono figli non loro. Ci sono ragazzi che decidono di non odiare, anche dopo aver subito tutto.

Questi sono gli artigiani della pace. Sono ovunque. Ma per vederli bisogna cambiare sguardo. Bisogna togliersi il filtro del cinismo. Smettere di credere che nulla può cambiare. Riconoscere che la pace non si impone, si genera. E si genera in ogni gesto quotidiano. In ogni parola gentile. In ogni conflitto affrontato con verità. In ogni compromesso che salva la dignità. In ogni silenzio scelto per non ferire. In ogni scelta di restare.

Non basta più indignarsi. Non basta più chiedere la pace come si chiede un diritto. Bisogna imparare a farla. A costruirla. A cucirla giorno per giorno. Come si ricuce una ferita. Come si aggiusta un vaso rotto. Come si prepara il pane.

E sì, la pace ha bisogno di artigiani. Non di guerrieri. Non di influencer. Non di opportunisti. Ha bisogno di chi sa ascoltare, mediare, attendere, proteggere, costruire, consolare. Di chi ha il coraggio di attraversare il conflitto senza fuggire. Di chi non cerca l’applauso, ma il bene. Di chi ha imparato che la giustizia senza misericordia è solo vendetta, e che la verità senza amore è solo violenza.

La domanda allora cambia. Non è più “dove sono gli artigiani della pace?”, ma: “Vogliamo esserlo anche noi?” Siamo pronti a pagare il prezzo? Siamo disposti a vivere senza odio? A disarmare le nostre parole? A rinunciare alla superiorità? A educare i nostri figli all’empatia, al perdono, al dialogo?

Perché la pace non nasce nei palazzi, ma nei cuori. Non si conquista con i trattati, ma con le relazioni. Non si insegna con le armi, ma con l’esempio. Ed è questo il tempo in cui non possiamo più delegare.

La buona notizia è che gli artigiani della pace esistono. E sono in cammino. Sono a Lampedusa e a Lesbo. A Betlemme e a Kiev. A Napoli e a Rio. A Palermo e a Chicago. A Marsiglia e a Kinshasa. A Gerusalemme e nei villaggi africani. Sono negli ospedali da campo e nelle case famiglia. Nei campi profughi e nei centri giovanili. Nelle parrocchie di frontiera e nei quartieri dimenticati. Ma anche nelle nostre strade, nelle nostre scuole, nelle nostre case.

Esistono e resistono. Nonostante tutto. E oggi più che mai dobbiamo unirci a loro. Non per idealismo. Ma per realismo. Perché l’alternativa alla pace non è la neutralità. È il crollo. È la barbarie. È l’abisso.

Solo chi ha imparato l’arte della pace può salvare questo tempo.

E allora smettiamola di cercare eroi. Cominciamo ad agire. Con mani nude. Con parole vere. Con cuori disarmati.

Perché il mondo non ha bisogno di potere. Ha bisogno di cura. E la cura, come la pace, è un’opera artigianale.

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