Donazione di organi, perché sempre più italiani dicono no
- Postato il 3 maggio 2025
- Di Panorama
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My body, my choice»: mio il corpo, mia la scelta. Lo slogan coniato durante i movimenti femministi americani a fine anni Sessanta, tanto caro ai sostenitori dell’aborto quando rivendicano il diritto della donna a scegliere da sola (proprio perché il corpo è suo) se portare avanti una gravidanza oppure no, pare essere ora diventato il motto di chi si oppone alla donazione degli organi.
Fenomeno in grande crescita, quantomeno in Italia: nel 2024, il 36,3 per cento dei 4 milioni di cittadini che hanno dovuto rinnovare la carta d’identità presso le anagrafi comunali si è dichiarato contrario alla donazione, optando quindi per l’opposizione al prelievo degli organi in caso di morte. Ma già nei primi tre mesi del 2025 la percentuale dei contrari è volata a quota 40 per cento.
Tutto questo proprio mentre il Centro nazionale trapianti diffondeva i dati degli interventi effettuati nel 2024: 4.692 trapianti, mai così tanti nella storia italiana, con una crescita del cinque per cento rispetto all’anno precedente con Toscana, Emilia-Romagna e Veneto tra le regioni più generose.
Sembrerebbe una contraddizione in numeri: mentre sul campo, quindi nelle rianimazioni e nelle sale operatorie i favorevoli alla donazione continuano ad aumentare, la tendenza per i prossimi anni non lascia molto spazio all’ottimismo.
Ma cosa sta succedendo? Il numero delle opposizioni a priori cresce «soltanto» per la poca fiducia nella scienza e nei medici, conseguenza dei difficili anni di pandemia? Oppure per paura che gli organi entrino nel mercato clandestino, per credenze religiose o anche (perché no?) per il timore che il nostro cuore, i nostri occhi vadano a persone che non li «meritano»?
Non è solo una dicotomia buoni-cattivi, perché come spesso accade, la questione è più complessa di quanto sembra. «Le persone che vanno a rinnovare la carta d’identità non sono pronte a sentirsi fare una domanda così eticamente impegnativa e ricca di implicazioni» spiega Giorgio Battaglia, direttore del Centro regionale Trapianti della Sicilia. «Inoltre gli impiegati dell’anagrafe spesso non sono stati formati a porla nel modo giusto e a dare le corrette spiegazioni. Le persone, quindi, magari dicono “per adesso no, poi ci penso”. E non c’è malafede, o ignoranza, o egoismo, in questa risposta: solo impreparazione alla scelta. Solo che quel no, poi, “pesa” moltissimo sulle donazioni e sulle speranze di vita dei malati in attesa di un organo».
Pesano anche gli strascichi della rottura del rapporto di fiducia tra cittadini e sanitari, durante la pandemia, e di una corrente anti-scientifica che in Italia si è dimostrata molto forte.
«Alcuni temono che i medici, quando si trovano davanti a un potenziale donatore, curino con meno impegno, o che gli organi possano finire sul mercato clandestino: questo è assurdo, le regole sono rigidissime» continua Battaglia. «E anche riguardo alla religione, occorre dire che la Chiesa cattolica si è pronunciata fortemente in difesa della donazione, in opposizione alla “cultura” del cadavere inviolabile. È la nostra coscienza che deve cambiare e credere in questa possibilità: l’unica che abbiamo di dare scacco alla morte».
Ci sono poi, alla base di un «no» all’espianto, anche paure ataviche molto difficili da scardinare. «Nella mia esperienza, le più dure da superare sono quelle che sottendono alla comprensione della linea di confine tra la vita e la morte» afferma Silvia Pulitanò, rianimatore pediatrico e responsabile del coordinamento Donazioni organi e tessuti dell’Irccs Policlinico Gemelli di Roma. «Dobbiamo spiegare bene alle persone che la legge italiana è tra le più garantiste al mondo: l’espianto degli organi avviene solo ed esclusivamente dopo un percorso di accertamento neurologico e cardiologico che non lascia spazio al minimo dubbio».
Facile a dirsi, poi la verità è che quando ci si trova fuori dalla rianimazione, mentre là dentro qualcuno sta morendo, tutto si complica. I dubbi e le paure si moltiplicano. «Se non c’è una chiara volontà espressa in vita, tramite carta d’identità o altri scritti, i parenti si sentono schiacciati nel dover prendere una decisione nelle sei ore durante le quali si procede all’accertamento della morte cerebrale» riflette Giovanna Amato, psicologa Crt al Policlinico Giaccone di Palermo. «In quel poco tempo, devono fare i conti con il decesso dei loro cari, la rabbia, la non accettazione, e riuscire anche a ritagliarsi quello spazio di pensiero per far posto alla speranza della vita. Non è semplice. Occorrono psicologi e medici formati e abituati a comprendere i momenti di grande difficoltà e guidare le persone verso un atto di generosità».
Intanto, però, fuori dagli uffici dell’anagrafe di via Larga, a Milano, la signora C.M., poco più di 60 anni, ha appena rinnovato la sua carta d’identità. «Non ho dato il consenso al prelievo, in caso di morte. Perché ho paura che i miei organi possano salvare un criminale. Preferisco portarmeli con me».
«My body, my choice», appunto.