Donald Trump, ecco perché vuole riconquistare il fortino di Harvard
- Postato il 14 giugno 2025
- Di Panorama
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E se Donald Trump si stesse ispirando ad Antonio Gramsci? Sì, immaginiamo che questa domanda possa avervi fatto sobbalzare dalla sedia. Tuttavia, più che di una provocazione, potrebbe trattarsi di una curiosa verità. E, per capirlo, dobbiamo guardare allo scontro in corso tra l’inquilino della Casa Bianca e la più nota università statunitense, Harvard.
Tutto è iniziato ad aprile, quando l’amministrazione Trump ha inviato una lettera all’ateneo, chiedendo l’abolizione delle direttive su diversità e inclusione, nonché una linea dura di contrasto all’antisemitismo. Dopo pochi giorni, la Casa Bianca ha iniziato ad annunciare il congelamento di fondi ad Harvard: secondo il Guardian, a metà maggio, l’amministrazione americana era arrivata a bloccare un totale di 2,65 miliardi di dollari in sovvenzioni all’ateneo. Non solo. Il presidente americano ha anche ordinato alle agenzie federali di cancellare tutti i contratti in essere con l’università.
Harvard, dal canto suo, ha avviato una battaglia legale, accusando la Casa Bianca di violare la propria autonomia. Lo scontro, insomma, si è fatto significativamente serrato. E non sembra destinato a placarsi tanto presto. Senza dubbio, lo abbiamo visto, Trump ritiene che l’ateneo non abbia fatto abbastanza per arginare l’antisemitismo e il dilagare dell’ideologia woke. Inoltre, il congelamento dei finanziamenti all’università potrebbe anche essere inserito nella strategia, portata avanti dalla Casa Bianca, volta a ridurre la spesa pubblica. Ora, tutti questi elementi costituiscono senz’altro parte importante delle ragioni che stanno muovendo il presidente americano contro l’ateneo. Tuttavia, scavando più a fondo, è forse possibile rinvenire una causa di natura strutturale.
Quella a cui stiamo assistendo è, in altre parole, una lotta per l’egemonia culturale. «Avviene nell’arte politica ciò che avviene nell’arte militare: la guerra di movimento diventa sempre più guerra di posizione e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara minutamente e tecnicamente nel tempo di pace. La struttura massiccia delle democrazie moderne, sia come organizzazioni statali che come complesso di associazioni nella vita civile, costituiscono per l’arte politica le trincee e le fortificazioni permanenti del fronte nella guerra di posizione», scriveva Gramsci a proposito dell’«egemonia civile». «In Oriente lo Stato era tutto, la società civile primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte», aggiungeva Gramsci. In altre parole, la rivoluzione non è possibile con un assalto diretto allo Stato, ma occorre via via occupare le «casematte» della società civile: solo in questo modo è possibile predisporre e successivamente attuare il cambiamento politico.
Ecco, possiamo dire che, agli occhi di Trump, Harvard – così come gli altri atenei della cosiddetta Ivy League – rappresenti la «casamatta» per eccellenza: il tempio di quel pensiero liberal-progressista che, nei decenni, ha forgiato larga parte della classe dirigente statunitense, a partire proprio dagli apparati statali. Quegli apparati che l’attuale presidente ha intenzione di riformare radicalmente. Una battaglia, la sua, pregna di cultura politica «jacksoniana»: fu d’altronde proprio il presidente Andrew Jackson, da sempre esplicitamente ammirato da Trump, a inventare lo spoil system e a introdurre negli Stati Uniti una cultura politica di stampo antiestablishment e populista. In quest’ottica, Harvard, agli occhi di Trump, rappresenta la fucina di quelle élites che hanno in mano i gangli dell’alta burocrazia, nonché i potenti circoli legati all’economia e alla sicurezza nazionale. Ma c’è anche un nodo socioeconomico. Come ha evidenziato Patrick Deneen nel suo saggio del 2023 Regime change, l’istruzione superiore americana è diventata ormai un mondo chiuso, di cooptazione, volto a rafforzare le differenze di classe. Riecheggiano qui le parole di Hillary Clinton e Joe Biden che definirono rispettivamente gli elettori di Trump «miserabili» e «spazzatura».
Eppure attenzione: se ci fermassimo alla rivolta populista dei «dimenticati» resteremmo del tutto ancorati al trumpismo delle origini, quello del 2016. In realtà, stavolta, emerge un tassello ulteriore, che ci permette di parlare di un «momento gramsciano» del trumpismo stesso. L’egemonia culturale non vuole solo abbattere, ma sostituire. Ed è allora interessante dare uno sguardo al pantheon intellettuale di alcune figure molto vicine all’inquilino della Casa Bianca. Non è un mistero che JD Vance sia un ammiratore di Deneen e di René Girard: intellettuale cattolico, il cui pensiero ha contribuito alla conversione al cattolicesimo dell’attuale vicepresidente americano nel 2019. È tra l’altro interessante sottolineare come Vance sia approdato a Girard tramite il suo grande sponsor, nonché fondatore di PayPal, Peter Thiel.
E proprio Thiel, già in un suo vecchio articolo intitolato The straussian moment, ha espresso delle posizioni nettamente critiche nei confronti del retaggio illuminista collegato alla cultura politica americana, rifacendosi ad autori piuttosto lontani non solo dal progressismo ma anche dal liberalismo classico: Carl Schmitt, Leo Strauss e lo stesso Girard.
D’altronde, bisogna fare attenzione: la polemica contro le università d’eccellenza statunitensi non nasce né con Trump né con Deneen né con Thiel. Quanto accade oggi è semplicemente l’esito di un’onda lunga che parte addirittura dal lontano 1987, quando Allan Bloom pubblicò The closing of the american mind: un saggio in cui, tra le altre cose, l’autore prese di mira gli atenei d’élite, denunciando l’istruzione liberal e il progressivo abbandono della cultura occidentale. È interessante notare come Bloom fosse allievo di Leo Strauss che, per vari anni, è stato (in gran parte erroneamente) considerato una sorta di padre del neoconservatorismo americano e che invece adesso, come abbiamo visto, risulta (in modo solo apparentemente paradossale) uno dei punti di riferimento intellettuali di Thiel. Un Thiel che, tra l’altro, ama talvolta citare Tommaso d’Aquino, mentre Vance è un grande estimatore del De civitate Dei di Agostino d’Ippona. È altresì utile sottolineare il titolo del saggio di Deneen, Regime change: non dimentichiamo che Gramsci studiò approfonditamente Niccolò Machiavelli proprio per le sue acute riflessioni sul cambiamento politico.
Insomma, se nel primo mandato non diede grande importanza alla questione dell’egemonia culturale, sembrerebbe che stavolta Trump abbia cambiato idea. È chiaro che nella sua crociata contro Harvard vengano a convergere svariati elementi: dal tentativo di rinnovare la formazione della classe dirigente americana alla volontà di scardinare un sistema di cooptazione sempre più elitario. Tuttavia, varie figure assai vicine all’inquilino della Casa Bianca, come Vance e Thiel, spingono per la promozione di un pensiero filosofico in netto contrasto con il liberal-progressismo di derivazione illuminista tipico della Ivy League. È in questo senso che non è del tutto fuori luogo parlare di un «momento gramsciano» dell’amministrazione Trump. La lotta a favore dei dimenticati dalla globalizzazione e quella per riformare gli apparati governativi assumono delle connotazioni ideologiche di notevole distanza dal liberalismo, tanto nella sua forma classica che progressista.
Il che fa emergere anche degli aspetti controversi, non c’è dubbio. Dall’altra parte, vanno però tenuti presenti due fattori. Primo: il fronte intellettuale di cui stiamo parlando è articolato. E, soprattutto attraverso la Heritage Foundation, presenta innesti di liberalismo classico (specialmente per quel che concerne la difesa del Primo emendamento). In secondo luogo, bisogna aver ben chiaro che siamo in una fase di cambiamento del paradigma dal punto di vista geopolitico, economico e ideologico: stiamo, in altre parole, attraversando la crisi della globalizzazione a livello sistemico. È quindi in questo quadro che va inserita la lotta per l’egemonia culturale, portata avanti dall’amministrazione Trump. Il che, se vogliamo, spiega anche il clima di crescente polarizzazione che si registra negli Usa e, più in generale, in Occidente. Tra il vecchio e il nuovo paradigma, per definizione, non può esserci armonia. O prevale l’uno o prevale l’altro.
Forse quando Trump, durante l’insediamento, parlò di una «nuova età dell’oro» per l’America non stava usando soltanto una espressione retorica. Le più grandi rivoluzioni nella Storia sono state fatte, nel bene o nel male, predicando la restaurazione di un passato idealizzato. L’arroccamento, oggi, delle élites progressiste la dice lunga. Il loro fallimento storico è ormai conclamato. E adesso, davanti alla prospettiva concreta di un tramonto del loro potere, hanno sempre più paura.