Donald Trump e la nuova guerra: colpire, confondere, trattare (sognando il Nobel)
- Postato il 3 luglio 2025
- Di Panorama
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Il nero va di regina e vince in due mosse. Gli scacchisti lo chiamano il “matto dell’imbecille” e Donald Trump è per la sinistra mondiale l’uomo nero e per gli intellò coccolati da Barack Obama e dal contorno democratico, inebriati dal woke, supponenti fino all’insopportabilità, anche un imbecille. Il presidente degli Stati Uniti a capo del Maga, però, la “magata” l’ha fatta davvero. Come negli scacchi quello dell’imbecille è il “matto” più rapido che sia mai stato giocato, così la “guerra dei 12 giorni” è la più spiazzante delle azioni tattico-militari. Sostenuta dalla strategia della confusione. Donald Trump la conosce molto bene, i commentatori sono distratti: basterebbe aver letto il suo The art of the deal, un’autobiografia sotto forma di vademecum per chi desidera fare affari, per sapere che la prima mossa del tycoon è proprio spiazzare l’avversario. In psichiatria la teoria della confusione postula che si distruggano con messaggi contraddittori le convinzioni errate del paziente, ad esempio le ossessioni compulsive; allo stesso modo, negli affari come in guerra, con la strategia della confusione si provoca il disorientamento.
La riprova? Prima di far partire i micidiali Stealth B-2 Spirit che hanno trasportato – con una missione che Reuters ha definito «la più ampia e più perfetta di questo tipo» – gli ordigni bunker busterper colpire gli impianti nucleari segreti iraniani di Fordow, il presidente statunitense aveva annunciato al mondo: «Non abbiamo intenzione d’attaccare». La stessa strategia militare è partita con un diversivo: mentre i 7 mega caccia bombardieri – riforniti in volo e invisibili ai radar – puntavano sull’Iran -, dalla base di Whiteman sono decollati altri B-2 con rotta su Guam. Certamente l’operazione è stata concordata con gli israeliani con fitto scambio d’intelligence – che gli iraniani stavano trasferendo l’uranio arricchito al Pentagono lo sapevano benissimo – e con una programmazione lunga. Ma quello che contava davvero non era tanto azzerare – come peraltro ha potuto rivendicare Trump anche se quasi certamente non è così – la capacità di costruire l’atomica da parte di Ali Khamenei, ma dimostrare che America is back, gli Usa sono tornati al centro del mondo.
In questa partita a scacchi per Donald Trump – lui vorrebbe proprio cambiare il perimetro della scacchiera smantellando la globalizzazione e definendo un nuovo ordine del mondo diviso per aree d’influenza su cui gli Usa proiettano la propria potenza: America first, ma anche first America! – in palio c’è il primato economico statunitense e il premio è il Nobel per la pace. Lui crede sul serio di meritarselo e se regge la tregua Iran-Israele, se la striscia di Gaza viene pacificata e Vladimir Putin gli dà retta sull’Ucraina sarebbe ben difficile negarglielo. Del resto Edward Luttwack – già consulente strategico dei servizi d’informazione americani – ha notato: «Se a Obama lo assegnarono in via preventiva, a Trump spetta di diritto per risultati già acquisiti». Risultati che dovranno essere misurati a scadenza un po’ più lunga. Benjamin Netanyahu a poche ore dal bombardamento degli impianti iraniani ha affermato: «La decisione di Trump è coraggiosa e cambierà la storia, congratulazioni presidente: l’America è davvero insuperabile». Netanyahu però non ha ottenuto tutto quello che voleva: non è stato azzerato il nucleare iraniano, non è stato tolto di mezzo l’ayatollah Khamenei, che anzi dopo aver avvisato che avrebbe bombardato Doha ha cantato vittoria grottescamente dal suo bunker: «Il regime israeliano, sotto i colpi della Repubblica Islamica, è quasi crollato ed è stato schiacciato».
Trump, come ogni uomo d’affari, non vuole mai stravincere. Sa che potrebbe esserci sempre una seconda occasione. L’errore che molti fanno nel valutare ciò che The Donald fa, ma soprattutto ciò che dice, è di considerarlo un uomo di Stato: lui prima di tutto tratta la politica come un affare. Nel suo esalogo del business c’è l’articolo 3 – fa il paio col vecchio articolo 5 della Borsa di Milano: chi ha i danè ha vinto – che recita: «Massimizza le tue opzioni». Si fa così. Se il premier israeliano non è del tutto soddisfatto, ecco che dopo averlo strapazzato perché ha interrotto la tregua con l’Iran, Trump s’erge a suo massimo difensore. Scrive su Truth, il suo social: «Sono rimasto scioccato nell’apprendere che lo Stato di Israele, che ha appena vissuto uno dei suoi momenti più grandi della storia ed è guidato con forza da Bibi Netanyahu, sta continuando la sua assurda caccia alle streghe contro il suo primo ministro! Bibi ed io abbiamo appena attraversato l’inferno insieme, combattendo un nemico di Israele tenace e di lunga data: l’Iran. A Bibi dovete dare la grazia, non inquisirlo per corruzione». La strategia della confusione prevede questo; non che si realizzino tutti gli obbiettivi, ma che si riesca a farli credere come raggiunti. Lo dimostra un altro successo di queste ore del presidente americano: l’aver ottenuto a l’Aia che i 32 Paesi della Nato mettano mano al portafoglio. È stato affermato il principio del 5 per cento del Pil destinato alla spesa militare. Che avvenga con ampie dilazioni e talune defezioni – si legga lo spagnolo Pedro Sánchez subito minacciato da Trump con un raddoppio dei dazi – non ha importanza.
Rutte ora che è segretario generale della Nato benedice la spesa per i missili, ma soprattutto dopo essere stato il più fermo difensore della potenza europea si è trasformato in sfegatato tifoso trumpiano. Concluso il vertice ha scritto: «Donald Trump è un buon amico le cui azioni meritano di essere lodate, sia per quanto riguarda la questione iraniana sia per il modo in cui ha costretto gli alleati della Nato ad aumentare le loro spese per la difesa». E poi, rivolto al presidente americano: «L’Europa pagherà il suo contributo in modo consistente, come è giusto che sia, e sarà una tua vittoria. Otterrai qualcosa che nessun altro presidente americano è riuscito a fare in decenni. Non è stato facile, ma siamo riusciti a far impegnare tutti a raggiungere il 5 per cento».
Con Alessandro Manzoni che si occupava di un altro astro superpotente, Napoleone, viene da chiedersi: ma è vera gloria? Sì, ma anche… no, verrebbe da dire. Lo spiega bene Antonella Bovino – ricercatrice di strategia internazionale – che per il Centro Studi Machiavelli ha messo sotto monitoraggio affermazioni e accadimenti delle ultime settimane. Secondo Bovino «stiamo forse assistendo a una nuova forma di guerra, in cui l’obiettivo non è la distruzione dell’avversario, ma la comunicazione strategica. Emerge un’escalation controllata, in cui le potenze si colpiscono entro limiti precisi, con azioni calibrate volte a ristabilire la deterrenza, affermare la propria credibilità e inviare segnali politici. Così, l’uso della forza diventa uno strumento negoziale, mirato a influenzare la percezione degli attori coinvolti. Si tratterebbe di una strategia sofisticata: riduce i costi diretti della guerra, ma il margine di errore è minimo, e un solo passo falso potrebbe far precipitare la situazione oltre il punto di non ritorno».
A ben vedere è andata proprio così. Con l’Iran, con Israele, ma anche con Vladimir Putin con cui probabilmente Trump ha stretto un accordo sui confini, come ha costretto Volodymyr Zelensky ad accettare – probabilmente in cambio di un salvacondotto futuro – quello sulle terre rare. La strategia del presidente americano è di non accontentare nessuno, ma di garantire tutti. Lo ha fatto con i Paesi Arabi. Nessuno si è eretto a paladino dell’Iran. Probabilmente anche loro ne hanno abbastanza della strategia del terrore degli ayatollah, declinata attraverso Hamas ed Hezbollah tanto per dirne due, sanno che la faccenda di Gaza va risolta senza evocare la questione palestinese.
Il principe saudita Mohammad Bin Salman vuole rafforzare gli accordi di Abramo perché vuole fare business, e così i qatarini che pure ospitano i vertici di Hamas per non dire del sultano dell’Oman, Haitham bin Tariq, che di fatto è socio in affari con Trump nella costruzione dei mega resort sul litorale di Mascate. Dunque il presidente americano lavora sì a un nuovo ordine mondiale, vuole sì portare Mosca al G8, minaccia la Cina – che peraltro se n’è stata buona buona e non ha approfittato della distrazione mediorientale americana per attaccare Taiwan – ma poi tratta perché vuole essere lui a dare le carte. Lo ha spiegato assai bene in un recente intervista a La Verità Daniele Ruvinetti, senior advisor della fondazione Med-Or – che legge così la crisi mediorientale e l’intervento di Trump: «Dietro l’armistizio c’è un accordo tra Trump e Putin sull’Ucraina. Ci sono stati incontri segreti favoriti dal Qatar e hanno visto anche il ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi». Forse è stato lì che ha concesso un salva vita a Khamenei in cambio dell’accordo rapido. E forse Vladimir Putin ha in consegna l’uranio degli iraniani che s’impegnano a non usarlo e forse Trump ha in ostaggio Zelensky che s’impegna a non ostacolare un congelamento dei confini. La pace trumpiana si farà, ma come affare tra gli Stati!