Dolce&Gabbana, tra sacro e profano

  • Postato il 13 luglio 2025
  • Di Panorama
  • 1 Visualizzazioni

Perché mai chi ha una certa idea dell’arte, derivata da un tipo di formazione professionale e intellettuale ben precise, dovrebbe occuparsi di una mostra di creatori di moda? Perché mai non dovrebbe farlo, ci sarebbe invece da domandarsi, dato che solo il pregiudizio potrebbe vietarlo.

Pregiudizio, innanzitutto, per il quale l’arte sarebbe una cosa e la moda un’altra. Bella scoperta: certo che è così, un dipinto non è mica un abito. Però dipinto e abito rispondono in maniera diversa a una stessa esigenza del genere umano, attribuire valore estetico a una creazione. In questo senso la differenza fondamentale fra un dipinto e un abito è che il primo manifesta questa espressione nell’ambito di una presunta “arte assoluta” che guarda a sé stessa come riferimento unico o comunque privilegiato, il secondo si esprime invece nelle modalità dell’“arte applicata” per le quali il valore estetico viene fatto convivere quanto più strettamente col quotidiano delle persone. Altro pregiudizio: l’“arte assoluta” sta sempre un gradino sopra la mondanità obbligata dell’“arte applicata”. Vecchie gerarchie da epoche pre-industriali, finite per ammalarsi di idealismo nel reagire alla paura della meccanizzazione. È ovvio che un abito non ci possa dire le stesse cose ricavabili da un dipinto, si tratta di discorsi orientati in maniera diversa per rispondere a fini non coincidenti. Però non si può neanche dire che un dipinto venga vissuto alla stessa maniera di un abito, che stabilisce con chi lo indossa un rapporto per cui viene interpretato come una forma di estetizzazione non solo del proprio esistere, ma anche del mettersi in relazione con altri esseri nella sua stessa condizione. Chi vede un dipinto può riconoscere e anche riconoscersi nelle sue motivazioni artistiche e intellettuali, ma quell’oggetto rimane sempre un altro rispetto a sé. Con l’abito quelle motivazioni potranno essere anche di portata inferiore, ma vengono compensate dal fatto che si può diventare un tutt’uno con l’oggetto comunicativo a cui si attribuisce valore estetico.

Qual è, allora, l’arte “superiore”? Punti di vista. Forse è il caso di fare i conti definitivi valutando nel concreto solo i prodotti derivati da questi due generi di esperienze, il loro livello effettivo sia sul piano della specificità di settore, sia su quello dell’incidenza sociale e culturale complessiva, che sono quelli più in grado di lasciare un segno nel presente così come nella storia. A vederla in questo modo ci si accorgerebbe che esiste dell’arte di rilievo – che sia “assoluta” o “applicata” è elemento non decisivo – e altra che non lo è.

Non ci può essere dubbio sul fatto che quello di Dolce&Gabbana, a cui il Palazzo delle esposizioni di Roma dedica una mostra di effervescenza speciale (Dal Cuore alle Mani, a cura di Florence Müller, fino al prossimo 13 agosto), è fenomeno estetico, e quindi non solo artistico, ma sociale, culturale, economico, di tutto rilievo nelle cose che riguardano il mondo contemporaneo. È industria, marketing, commercio che può essere anche altamente speculativo, qualcosa, insomma, che in ultima analisi serve da una parte a fare soldi nella quantità maggiore possibile, dall’altra a concedere a chi compra un certo status estetico che è anche sociale, considerati i costi dei prodotti non certo alla portata di tutte le tasche? Sì, ma non è questa una funzione di particolare interesse nelle dinamiche dell’attuale scenario post-industriale, evidentemente non assimilabile alle logiche dei secoli andati?

Il difetto principale della moda del passato è che di essa ci sono rimasti troppi pochi nomi di artigiani autori, molti dei quali donne che godevano di una reputazione sociale normalmente inferiore rispetto a quella dei maschi, altrimenti la si guarderebbe con occhi simili a quelli con cui si deve vedere l’attuale. Abbiamo dovuto attendere il secolo scorso perché al creatore di moda venisse riconosciuta una specifica personalità espressiva, processo che da un certo momento in poi è andato di pari passo con la sua commercializzazione, la sua capacità, cioè, di vendere sempre meglio il proprio talento attraverso il prodotto creato. Fino a giungere all’affermazione, col prêt-à-porter, della moda industrializzata che ha esentato dalle pratiche rituali e dai tempi dilatati della vecchia sartoria su misura, e ancora, con la crescita globalizzata di questa industria, al feticismo di massa per griffe che ormai tutto creano anche al di fuori dell’abbigliamento.

La storia artistica e imprenditoriale di Domenico Dolce e Stefano Gabbana, uno siciliano, l’altro milanese, che formano assieme un connubio di esplosiva forza internazionale, è bellissima ed emblematica da questo punto di vista, anche se in mostra tengono a concentrare l’attenzione sulla loro alta sartoria che sa ancora di antico nelle formidabili manualità artigianali che coinvolge. Impossibile, prescindendo da queste manualità, realizzare abiti come quelli, solo per dire di alcuni fra i tantissimi, a intarsi e mosaico ispirati ai medievali Cosmati, oppure quelli che rimandano alla tradizione folclorica, la Sicilia dei carretti multicolori naturalmente, ma anche la Sardegna che viene felicemente reinventata, o ancora quelli di ispirazione religiosa, smaglianti e dai ricami preziosissimi. Un solo dubbio davanti a tanto sfarzo: dove finisce la moda e comincia il costume, l’abbigliamento pensato cioè propriamente per la scena? O forse la categoria “alta sartoria” annulla ogni differenza d’ambito, essendo la vita una scena continua? Prima di ogni altra considerazione c’è però la mostra a imporsi. A metà strada fra il sacrario autocelebrativo, il luna park, il wunderpalast e il set di un film di Fellini o di un Visconti in preda a qualche allucinogeno, strabocchevole, imprevedibile, barocca oltre ogni nozione storica di Barocco, che poi sono caratteri peculiari della cifra con cui Dolce&Gabbana si sono affermati universalmente.

Col coraggio di inoltrarsi anche in un kitsch che evidentemente aspira a ribaltare, visuali che oscillano fra orgia miscredente e anelito allo spirituale più aristocratico: un caleidoscopio, insomma, eccezionalmente stimolante a cui nessuno, comunque lo si giudichi, potrebbe rimanere indifferente. Quante mostre sono in grado di fare altrettanto? Ve lo lascio scoprire da soli, senza anticiparvi altro. Tanto non riuscirei neanche a rendere l’idea.

Autore
Panorama

Potrebbero anche piacerti