Dizionario del grafomane
- Postato il 24 dicembre 2025
- Di Il Foglio
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Dizionario del grafomane
Da tempo, non pochi tra i lettori cosiddetti “forti” si accorgono di leggere desultoriamente, a sbalzi, con il ritmo delle breaking news. Le trame lunghe si scorrono con più impazienza. Studi ponderosi non vengono arati dallo sguardo secondo l’ordine dei capitoli ma aperti a caso, assaggiati a bocconi qua e là. Non stupisce dunque che a molti facciano compagnia soprattutto i libri di racconti e saggi brevi. Nei giorni scorsi mi sono divertito a sfogliare il “Dizionario del grafomane” di Antonio Castronuovo, edito da Sellerio. Una raccolta che appunto di lettura parla, ma attraverso quel suo rovescio che è l’atto di scrivere. Ogni pezzo una paginetta, per centinaia di spigolature su autori di ogni tempo e paese: si va da Plutarco a Muratori, da Varrone a Murakami, dalle raffinatezze di Virginia Woolf alle fabbriche di ghost writers impiantate da Dumas padre. La grafomania descritta da Castronuovo acquista un significato socialmente sintomatico nella modernità, quando si perde la percezione del limite che dà senso e proporzione – classicità – all’opera. Di qui si sviluppano due tendenze opposte: da un lato l’atletismo da Guinness dei romanzieri che compongono centinaia di volumi, dall’altro il corteggiamento beckettiano del silenzio. Alcuni autori pubblicano compulsivamente, alcuni invece accumulano monumentali diari postumi. Per quel che riguarda la letteratura maggiore, l’Ottocento ha conosciuto nella sua prima metà dei formidabili scrittori-impresari (Balzac, Dickens) la cui opera sembra un prolungamento dell’energia vitale. Ma già nella seconda parte del secolo le attività sociali e artistiche iniziano a collidere: lo si vede bene in Verga e Proust, che compongono i loro capolavori quando smettono di voler dominare la realtà mondana con un gesto a sua volta mondano. Nel Novecento, da Cechov a Montale, vivere e scrivere diventano verbi nemici. Si scrive perché si è malati, e si cerca di trasformare la scrittura in terapia o pratica igienica (del pensiero, ad esempio, in Valéry). Uno dei motivi ricorrenti del “Dizionario del grafomane” riguarda infatti l’aspetto fisiologico di questa attività. Ci sfilano davanti i metodici senza scampo, come Kant, e gli autori che tirano avanti a forza di stupefacenti, come Sartre. Ci sono gli scrittori sedentari, magari con ipertrofia prostatica; ci sono i camminatori nicciani, o gli esteti orgogliosamente ortostatici (Hemingway, D’Annunzio); e ci sono gli sdraiati come Proust. Agli ispirati si contrappongono coloro che vogliono scrivere a prescindere, a freddo, con l’aiuto di un metodo combinatorio, come quel Raymond Roussel che è un antenato dell’Intelligenza Artificiale. Qualche autore è ossessivo, e ha paura di perdere gli appunti; qualcun altro è distratto, e lascia depositare la scrittura come capita. C’è chi è divorato dalla vanità e chi da un autismo felice, chi compone in mezzo al chiacchiericcio domestico e chi soltanto in solitudine. Nell’insieme, Castronuovo ci offre un catalogo di tipi umani che somigliano molto ai pazzi di Ermanno Cavazzoni. Più si procede verso la fine della modernità, più i feticisti della scrittura sentono quanto è vano scrivere libri. Allora, a volte, scrivono sulle ragioni per cui non si dovrebbe scrivere, o commentano borgesianamente dei titoli di grandi libri inesistenti per realizzarne di piccoli. Rinasce allora la letteratura dei caratteri, delle “vite” di pochi capoversi. Ma intanto, nella folla, dilaga anche il narcisismo dell’autobiografia romanzata. La morale del “Dizionario del grafomane” potrebbe offrircela una parafrasi di Davigo: non esistono lettori, esistono solo scrittori non ancora scoperti.
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