“Divieto di pubblicità all’ultra fast-fashion e multe per gli influencer”: la Francia approva la prima legge “anti-Shein”. L’esperta: “Giusta ma parziale”
- Postato il 13 giugno 2025
- Moda E Stile
- Di Il Fatto Quotidiano
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Trentacinque capi di abbigliamento gettati via ogni secondo. Un valore di mercato che in un decennio è cresciuto di quasi un miliardo di euro, passando da 2,3 a 3,2 miliardi. Sono i numeri, impressionanti, del fast fashion in Francia, un modello di consumo “usa e getta” che ha presentato un conto ambientale e sociale non più sostenibile. Di fronte a questo scenario, il Senato francese ha deciso di “mettere la freccia e superare tutti”, come commenta l’esperta di sostenibilità Francesca Rulli, approvando martedì scorso a larghissima maggioranza (337 voti a favore, uno contrario) un disegno di legge pionieristico, il primo in Europa, per regolamentare la moda a basso costo. Il testo, ribattezzato “legge anti-Shein”, ora dovrà passare in commissione congiunta a settembre per poi ricevere il via libera da Bruxelles, e prende di mira soprattutto i colossi dell’ultra-fast fashion, le piattaforme di e-commerce cinesi come Shein, appunto, e Temu.
Cosa prevede la legge
Il testo introduce un sistema di eco-score per valutare l’impatto ambientale di ogni prodotto (emissioni, uso di risorse, riciclabilità). I marchi con i punteggi più bassi, cioè i più inquinanti, saranno soggetti a una tassazione ecologica progressiva: fino a 5 euro per articolo dal 2025, che saliranno a 10 euro entro il 2030 (con un limite massimo del 50% del prezzo al dettaglio). Sono previsti anche il divieto di pubblicità per questi marchi e sanzioni per gli influencer che li promuovono. Nel mirino, dichiaratamente, le piattaforme di e-commerce cinesi Shein e Temu. Ma proprio qui sorge la controversia: la legge, nella sua forma attuale, risparmia dalle sanzioni più severe i principali player europei del fast fashion come Zara, H&M e Kiabi.
A differenza della prima stesura, questa legge non colpisce i marchi europei del fast fashion ma si concentra quindi sull’ultra-fast fashion. C’è infatti una grande differenza. Le piattaforme cinesi Shein e Temu sono ultra fast fashion, non hanno alcun elemento riconducibile alla sostenibilità in termini di filiere che utilizzano, diritti che rispettano, impatto ambientale che riducono. Per questo, tutti i prodotti che immettono in Francia devono pagare una tassa perché inquinano. E come si capisce se inquinano? Valutando l’impatto ambientale del prodotto, che è dato da emissioni, uso delle risorse, riciclabilità e così via, il tutto ponderato sul ciclo di vita. La sostanza: se produci male paghi, se produci bene ti premio. La “tassa” sarà applicata su ogni prodotto e aumenterà progressivamente fino ad almeno 10 euro a capo nel 2030, ma senza superare il 50% del prezzo al dettaglio dell’articolo. In più, ci sarà un’ulteriore tassa che va dai 2 ai 4 euro per ogni piccolo pacco consegnato da aziende extra-europee. In aggiunta a questo, si vieta di pubblicizzare l’ultra-fast fashion anche attraverso gli influencer.
L’analisi di Francesca Rulli: “Giusta, ma parziale”
Per capire la portata e i limiti della legge francese, abbiamo chiesto un’analisi a Francesca Rulli, Ceo di Process Factory e fondatrice del framework di sostenibilità 4sustainability. “Personalmente credo che la ratio della norma francese sia giusta ma parziale”, esordisce. “Sono assolutamente d’accordo sull’urgenza: quando vedo le istituzioni dell’Ue procedere troppo lentamente mi chiedo cosa stiano aspettando, vista anche la grande responsabilità che abbiamo in termini di competitività”. Rulli ricorda che la strategia europea per il tessile, definita già nel 2022, si basa su tre pilastri (filiera trasparente, passaporto digitale di prodotto e responsabilità estesa del produttore), ma “sta andando molto lenta, con problemi di implementazione e confusione interpretativa”.
La legge francese, spiega, si basa su un principio corretto: “Se produci male paghi, se produci bene ti premio”. E distingue nettamente tra fast fashion europeo e ultra-fast fashion cinese, che “non ha alcun elemento riconducibile alla sostenibilità in termini di filiere, diritti che rispettano, impatto ambientale che riducono”. Tuttavia, l’esperta solleva tre dubbi cruciali che la legge, al momento, non chiarisce:
- Il rischio sociale: “Si parla di impatto ambientale, ma come leghiamo lo score al rischio sociale? Possono esserci fabbriche che inquinano poco ma mancano totalmente di rispettare i diritti umani, sfruttano le proprie risorse e generano impatti sociali che impoveriscono i territori”.
- La destinazione d’uso: “La moda comprende una vastissima gamma di prodotti. Siamo sicuri che la destinazione d’uso non debba contare nella valutazione?” (un cappotto, ad esempio, ha un ciclo di vita diverso da una t-shirt).
- La verifica dei dati: “E infine: come sono verificati i dati con cui calcoliamo lo score di sostenibilità? Sono autodichiarati dal produttore o esiste un sistema validante?”.
“Quindi ben venga un’accelerazione per educare il consumatore”, conclude Rulli, “ma attenzione al metodo, perché potrebbe fornire informazioni non sempre affidabili o indurci in valutazioni errate. La speranza, però, è che questa legge spinga l’Europa a procedere con più forza e decisione”.
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