Difesa Ue tra missili Patriot, piani da 800 miliardi e dubbi sul riarmo
- Postato il 28 luglio 2025
- Di Panorama
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«Non ho ancora concordato il numero, ma ne avranno un po’ perché hanno bisogno di protezione e l’Unione europea pagherà, noi non pagheremo nulla», dichiara Donald Trump il 14 luglio parlando delle batterie antimissile Patriot per l’Ucraina. L’ultimo “affare” del presidente Usa, che ha annunciato l’invio alla Nato, «che pagherà al 100 per cento», per consegnare i vitali intercettori terra-aria a Kiev. Due giorni dopo lo stesso Trump annuncia che i primi Patriot «sono già stati consegnati. Provengono dalla Germania, che provvederà poi a rifornirli. Gli Stati Uniti riceveranno comunque un risarcimento completo». E lo stesso farà la Norvegia. Il conto per una sola batteria Patriot è di 1 miliardo di dollari fra sistema e missili intercettori (700 milioni), che vanno rimpiazzati una volta utilizzati contro i quotidiani attacchi russi. Il presidente francese Emmanuel Macron, però, punta i piedi e non vuole pagare le forniture Usa.
Il piano ReArm Europe da 800 miliardi
La corsa, in parallelo, al riarmo europeo non si ferma, ma è veramente realizzabile? La commissione europea ha lanciato un ardito piano ReArm Europe di 800 miliardi, che non si capisce bene come salteranno fuori. La triade di obiettivi è rendere il Vecchio continente indipendente dall’ombrello difensivo, anche nucleare, americano e dalle forniture Usa. Oltre a difendere a ogni costo l’Ucraina dall’invasione russa e blindare la sicurezza europea da minacce esterne. Per ora il programma di difesa dell’Unione europea ha a disposizione 150 miliardi e dal 2022 al 2024 le importazioni militari dagli Usa sono aumentate del 64 per cento. La Germania ha smentito, ma la Danimarca sta acquistando altri 10 F-35A dagli Stati Uniti oltre ai 27 già ordinati, che possono impiegare munizionamento nucleare.
Von der Leyen: «Difesa anche competitività»
Il 12 maggio la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, a margine del suo intervento sul futuro della filiera della Difesa europea, ha rilanciato sui social: «Abbiamo bisogno di un’industria forte, dato che la nostra Unione si assume una maggiore responsabilità per la propria difesa: non è solo una questione di sicurezza, ma anche di competitività». Nel discorso aveva elencato gli ostacoli normativi, i problemi di accesso alle materie prime, ai finanziamenti, la frammentazione di domanda e offerta fra i singoli Paesi e la mancanza di manodopera qualificata.
I veri limiti del riarmo europeo
«I problemi strutturali che oggi rendono politicamente impossibile ed economicamente insostenibile il massiccio riarmo dell’Europa sono prettamente finanziari e industriali» ha scritto senza peli sulla lingua Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. Secondo l’esperto del settore «modificare l’impostazione delle industrie europee per la Difesa verso produzioni di massa è un processo che richiede forti investimenti, diversi anni, molte migliaia di nuovi lavoratori specializzati non reperibili oggi sul mercato e soprattutto un agevole e conveniente accesso a materie prime, acciaio, esplosivo e soprattutto energia a buon mercato». Non solo: alla fine del 2024 il prezzo dell’esplosivo per uso militare è volato del 90 per cento, l’acciaio del 59 per cento, i circuiti stampati del 64 per cento e così via. Nella relazione sulla Ue, l’ex premier Mario Draghi sottolinea che «in Europa si producono cinque diversi tipi di obici e negli Usa solo uno, dodici tipi di carri armati europei a fronte di uno solo negli Stati Uniti».
Costi e confronti con Russia e Cina
I costi, i tempi e le difficoltà della produzione bellica europea sono evidenti se paragonati a quelli russi e cinesi. Analisi Difesa fa notare che un singolo proiettile d’artiglieria da 155 millimetri prodotto in Europa costa all’acquirente tra i 2.500 e i 4 mila euro. I russi sul fronte ucraino ne tirano oltre 10 mila al giorno ed i militari di Kiev la metà, ma per riempire i magazzini e sostenerli siamo al limite della capacità produttive dell’Occidente. Il prezzo delle bombe d’aereo Mk 82, 83, 84 è raddoppiato fino a 60 mila euro. Il carro armato tedesco di punta, il Leopard 2 A8, costa 29 milioni di euro contro i 17,5 di un M1A2 Abrams statunitense, i soli 4,1 milioni di un T 90 russo e i 2,3 milioni del cinese Type 99A. I caccia bombardieri occidentali in servizio come l’Eurofighter Typhoon, per non parlare degli F 35 (152 milioni), costano tre volte tanto rispetto al russo Sukhoi Su-35.
L’arsenale russo e le priorità italiane
Non è un caso che la Russia, come ha spiegato il ministro della Difesa Guido Crosetto, sta riarmandosi in maniera facile e veloce: «Per il solo 2025 Mosca potrà disporre di oltre 1.500 carri armati, 3 mila corazzati, 400 missili Iskander, migliaia di missili di vario tipo, decine di migliaia di bombe aeree e oltre un milione di droni. Arriveranno a 1,6 milioni i militari effettivi e a 5 milioni le riserve».
Il 21 maggio, in audizione alla Commissione Difesa, il generale Luciano Portolano ha elencato le necessità immediate per le Forze armate italiane. Uno dei primi obiettivi è «ripianare e mantenere un adeguato stock di munizionamento con un focus particolare sulle “battle decisive munition”» decisive in caso di guerra. Il ministro Crosetto ha individuato come “priorità” uno scudo antimissile che oggi non è totale. Proprio per la difesa aerea Portolano conferma che è stato «avviato l’approvvigionamento di ulteriori (missili, nda) Aster 15, Aster 30, Aster 30 B1 NT e partecipiamo a programmi di sviluppo capacitivo di sistemi di nuova generazione». L’Aster 30 B1 NT è in grado di intercettare missili ipersonici ed equipaggerà i nuovi sistemi di difesa terra-aria Samp-t, che entreranno in servizio entro il 2026. Alcune batterie le abbiamo mandate in Ucraina. La componente corazzata, che attende da anni nuovi carri, è un’ulteriore priorità. Per il dominio aereo arriveranno altri 24 Eurofighter e 25 F-35, che però risultano in parte già superati dai futuri caccia di sesta generazione. Per questo «proseguirà il Global combat air programme con Regno Unito e Giappone».
L’industria italiana si muove
Leonardo, il colosso tricolore della Difesa, collabora con la tedesca Rheinmetall per la produzione di carri armati. E il 16 giugno è stata costituita una joint venture con l’azienda turca Bayktar specializzata nella produzione di droni militari. I siti coinvolti in Italia sono Ronchi dei Legionari, Torino, Roma Tiburtina e Grottaglie. L’amministratore delegato, Roberto Cingolani, ha rivelato che il piano industriale prevede le prime consegne nel 2026, in un mercato da 100 miliardi nel prossimo decennio.
L’opinione pubblica italiana è contraria
A fine giugno, il centro studi European council on foreign relations ha realizzato un sondaggio sui temi della sicurezza e della difesa in 12 Paesi europei compresa l’Italia. Rispetto al resto del continente, dall’Inghilterra alla Polonia, passando per la Svizzera, l’opinione pubblica nel nostro Paese va in controtendenza. Solo il 17 per cento degli italiani è favorevole all’aumento della spesa militare e appena il 35 per cento vorrebbe lo sviluppo di un deterrente nucleare europeo alternativo che non dipenda dagli Stati Uniti.
L’ex ambasciatore italiano alla Nato, Francesco Talò, che è stato anche consigliere diplomatico di Giorgia Meloni, fa notare che sul 5 per cento del prodotto interno lordo deciso dall’Alleanza atlantica entro il 2035 «i soldi per la Difesa sono il 3,5 per cento con scadenza al 2035 e l’1,5 per cento riguarda la sicurezza come la mobilità militare ovvero strade, porti, infrastrutture. E comprende pure gli investimenti nella sfida cyber e dell’intelligenza artificiale, che è innovazione positiva per la crescita del sistema Paese».
Il nodo del deficit e la leva militare
Il governo, in cambio, vuole da Bruxelles garanzie che non si attivi, per queste spese, il vincolo del 3 per cento del rapporto deficit/Pil sul bilancio. Negli altri Paesi europei la maggioranza è favorevole all’introduzione della leva obbligatoria, ma da noi è minoranza con il 41 per cento. Dalla Danimarca al Portogallo, Regno Unito e Paesi baltici una stragrande maggioranza sostiene il supporto militare a Kiev. Ungheresi, romeni e italiani, ben il 59 per cento, la pensano all’opposto.
Talò vede il bicchiere mezzo pieno: «Più che riarmo c’è la necessità dei compiti a casa per la Difesa, che avremmo dovuto fare da anni. In maniera paradossale la spinta di Trump, sul ruolo in Europa e le spese per la Nato, ci consentirà di essere più indipendenti dagli Stati Uniti».