Difesa Ue, impossibile sganciarsi dagli Usa: il 60% delle armi arriva da lì
- Postato il 5 luglio 2025
- Di Panorama
- 2 Visualizzazioni


Il valore dell’export militare statunitense verso l’Europa è elevato. Circa il 60% dei sistemi d’arma acquistati in Europa sono di provenienza statunitense e questa percentuale è in aumento. In termini di spesa militare, va negli Usa il 66% della spesa della Nato. Una quantità di denaro che Washington non vuole perdere neanche ora che l’Europa si riarma con maggiore indipendenza. Ma è difficile dare torto a Jonathan D. Caverley, professore di strategia presso il Dipartimento di ricerca strategica e operativa dello U.S. Naval War College. Ed anche a Ethan Kapstein, direttore esecutivo dell’Empirical Studies of Conflict Project presso la Princeton School. I due, con un’analisi pubblicata sulla rivista Defense News, ricordano che al vertice Nato del 2018 il presidente Donald Trump aveva minacciato di ritirarsi dall’Alleanza se gli europei non avessero aumentato la spesa per la difesa. Il neoeletto cancelliere tedesco Friedrich Merz si è già chiesto se l’Europa debba “continuare a parlare della Nato nella sua forma attuale o se dovremo istituire una capacità di difesa europea indipendente molto più rapidamente di quanto pensiamo”, ma sappiamo bene che costituire una forza formata da militari appartenenti a diversi eserciti, con dottrine differenti e appartenenti a nazioni che hanno storia ed esigenze diverse è impossibile. Quale nazione lo comanderebbe? Quale lo rappresenterebbe alla Nato? Vero è che la situazione internazionale è tale che mai come oggi ci sono le idee per spingere verso la l’autonomia strategica, tuttavia nonostante gli importanti passi compiuti in questa direzione, l’Europa non può evitare la dipendenza della sua difesa dall’industria militare degli Stati Uniti. Corsi e ricorsi storici, come scrisse George Marshall (generale e politico americano) alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale: “Per quasi vent’anni abbiamo avuto tutto il tempo e troppo pochi soldi; oggi abbiamo tutto il denaro ma non abbiamo più tempo”. Gli Stati più vicini alla Russia, come la Polonia, ritengono che il tempo a disposizione per armarsi sia particolarmente breve e, di conseguenza, acquistano capacità ora a scapito dell’autonomia europea a lungo termine. Più distante da Mosca, la Francia, dotata di armi nucleari, può permettersi pazienza e investimenti ponderati. La Germania, più ricca, può fare entrambe le cose, costruendo armi e partecipando a programmi di difesa congiunti europei. Ma è da valutare la fretta della Polonia, che in caso di un cambio di governo al Cremlino potrebbe ritrovarsi indebitata ma non più nelle condizioni di doversi difendere. Indipendentemente da come vogliano spendere (i nostri) euro, gli attuali investimenti di questi Stati vanno a scapito della ricerca e sviluppo necessari per soddisfare le esigenze future. In fatto di ricerca e tecnologia militare gli Stati Uniti spendono più di dieci volte ciò che può permettersi l’Europa, un divario che si amplia se si considerano gli investimenti del settore privato in tecnologie a duplice uso come l’intelligenza artificiale, l’informatica quantistica e lo spazio, settori che svolgono un ruolo crescente nelle guerre moderne. La capitalizzazione di mercato della startup di difesa di maggior successo in Europa, la tedesca Helsing, è 25 volte inferiore a quella della statunitense Palantir. Nessuna azienda spaziale europea è minimamente paragonabile a SpaceX. Anche se l’Europa costruisse le armi di oggi in patria, farebbe affidamento sull’innovazione statunitense per la sua sicurezza futura. Nonostante i difetti e i costi l’Europa non possiede un velivolo equivalente allo F-35. Persino il Belgio ha recentemente ampliato il suo ordine a Lockheed Martin, ma ha insistito affinché i jet siano costruiti e manutenuti in Europa, in Germania e in Italia (alla Faco di Cameri, Novara). L’Europa potrebbe usare il suo potere negoziale per raggiungere un accordo con l’amministrazione Trump offrendo agli Stati Uniti l’accesso al mercato in cambio del controllo operativo delle armi che acquista. Un accordo così fatto e importante permetterebbe al presidente di raggiungere molti dei suoi obiettivi annunciati: aumento delle vendite di armi statunitensi, riduzione del deficit commerciale e nuove fonti di munizioni necessarie per affrontare i conflitti globali. In cambio, l’Europa si assicurerebbe la produzione locale e una maggiore sovranità su queste armi. Lo ha fatto proprio Varsavia, assicurandosi la produzione nazionale di alcuni sistemi statunitensi e sudcoreani. Persino la Francia, storicamente restia alla dipendenza dalle aziende di difesa statunitensi, si è detta disponibile allo sviluppo congiunto con aziende extraeuropee, ma ha fatto emergere tutti i dissensi con la Germania sul programma Fcas per il caccia di sesta generazione. Soltanto una politica di cooperazione in materia di armamenti rafforzerebbe entrambe le sponde dell’Atlantico, strategicamente ed economicamente. La scelta che si trova a fare l’Europa è questa: a fronte di una lentezza decisionale eccessiva e di differenti visioni interne, il Vecchio Continente può essere un consumatore di armi di ultima generazione prodotte internamente, nella ricerca di una sua autonomia, ma rischiando di non farcela e di non produrre a sufficienza, oppure un co-produttore di quelle americane che vuole raggiungere una maggiore potenza militare.