Difesa comune, cosa resta ancora da fare. Scrive Minuto Rizzo

  • Postato il 11 novembre 2024
  • Economia
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Ricordiamo che si tratta di un tema delicato perché tocca il cuore della sovranità nazionale. Si capisce perché arriva tardi nella dinamica della costruzione europea. Il Trattato di Roma viene firmato nel 1957 mentre la prima menzione di una Common foreign and security policy appare solo nel trattato di Maastricht del 1992. Si parla di Security e non ancora di Defense. La vera svolta avviene nel secondo semestre 1998 quando si cominciò infine a parlare concretamente di Difesa Europea. Il ministro della Difesa Nino Andreatta fu tra i promotori convincendo la presidenza austriaca di turno a mettere il tema in agenda. In quel contesto, Tony Blair dichiarò per la prima volta che il Regno Unito non si opponeva a una politica europea di difesa se questa fosse intergovernativa e con un chiaro obiettivo di potenziamento delle capacità militari.

Le cose sono poi andate più velocemente e il primo incontro fra i ministri della Difesa avvenne a Bruxelles nel Novembre 1999. Per l’Italia presente il ministro della Difesa Sergio Mattarella, di cui chi scrive era consigliere diplomatico. Un incontro di grande importanza perché i ministri decisero di insediare a Bruxelles nella primavera 2000 un Comitato per la politica e la sicurezza a livello di ambasciatori, un comitato militare, uno staff militare. Cioè strutture permanenti e dedicate.

A partire da queste basi si arriva fino al Trattato di Lisbona 2009, che completa le strutture istituzionali. Con ciò abbiamo visto una costante crescita della Pesd. Non dimentichiamo l’Agenzia europea di Difesa e molto altro. Come l’Alto Rappresentante che è anche vice presidente della Commissione e dispone di un Servizio esterno europeo. Esiste un Fondo europeo di Difesa per la cooperazione industriale. Sullo sfondo “complessivamente” i paesi si avvicinano al due per cento del pil per le spese di difesa. Obiettivo posto in sede Nato con i rapporti sono progressivamente migliorati, cosi come con gli Stati Uniti, Del resto l’Alleanza Atlantica dispone di strumenti collaudati che conviene tenere in piedi. Ma lavorando per consolidare una voce Europea. A questo punto la domanda è: benissimo per la strumentazione messa in piedi, ma l’efficacia dove è?

Si sono fatti progressi partendo tardi, questo è apprezzabile, ma molto resta da, fare poiché la percezione comune è che la Ue non sia un attore rilevante nella gestione delle crisi. Proprio quando il contesto internazionale lo richiederebbe. La reazione alla guerra in Ucraina è stata solidale più di quanto si potesse pensare, un segnale che un livello maggiore di ambizione è possibile. Vi è indubbiamente un problema di risorse finanziarie e di potenziamento dell’industria della difesa. Viene ora creata la figura di Commissari per la Difesa, che indica una direzione di marcia, ma il cui valore aggiunto è tutto da verificare fra gli strumenti istituzionali che già esistono.

Un sistema di 27 paesi non è facile da dirigere, per di più in queste materie si vota all’unanimità. Sappiamo poi che si sta avviando un processo di allargamento a Balcani e Mar Nero che complicherà ancora di più il processo decisionale. Sarebbe quindi imperativo togliere l’unanimità per aiutare il sistema a funzionare meglio. Ma è realistico aspettarselo nell’attuale quadro comunitario?

Infine, l’aspetto politico fondamentale è quello della percezione delle minacce. L’opinione pubblica si mostra riluttante all’uso dello strumento militare. Dovuto anche al lungo periodo di pace e prosperità di cui l’Europa ha goduto. Oltre all’illusione che il pacifismo sia un valore condiviso anche altrove.
La frammentazione del sistema internazionale e il sorgere di crisi plurime non sembra per ora sufficiente a modificare questo atteggiamento. Alla politica e alle istituzioni spetta il difficile compito di passare il messaggio che, per difendere i nostri valori ed interessi, è necessario avere una credibilità di difesa, e gli strumenti concreti per farlo concretamente.

Autore
Formiche

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