Di nuovo a caccia di vitalizi: oltre mille ex parlamentari rivendicano il ritorno degli assegni d’oro

  • Postato il 16 luglio 2025
  • Di Panorama
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L’elenco è lungo e variegato: oltre mille ex parlamentari – un tempo «onorevoli», oggi convinti di essere vittime di un’ingiustizia – rivendicano con forza il ripristino dei vitalizi decurtati. Da Antonio Bassolino a Mario Capanna, da Claudio Scajola a Ilona Staller, da Claudio Martelli a Rosa Russo Iervolino e poi Romano Prodi, Giuliano Amato, fino a Paolo Guzzanti. Il giornalista è quello più attivo sui media, ha raccontato di sentirsi «ferito» dalla «palese ingiustizia» subita, riferendosi al taglio, nel 2018, dell’assegno che percepiva a vita. La misura fu adottata dal Movimento 5 stelle e dall’allora presidente della Camera Roberto Fico, che ricalcolò il trattamento previdenziale degli ex inquilini di Montecitorio con il sistema contributivo, allineandolo a quello di qualsiasi altro cittadino. La questione è tornata di strettissima attualità in queste settimane, nelle quali il Collegio d’appello della Camera (una sorta di secondo grado di giudizio) si è riunito di nuovo per esaminare i ricorsi.

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 9 luglio Guzzanti ha spiegato di considerare quella delibera una violenza contro la «dignità» di chi ha servito lo Stato. «Ho dato il sangue in Parlamento», ha tuonato il giornalista. Ma la domanda è inevitabile: davvero gli ex onorevoli sono vittime? O piuttosto hanno beneficiato di un privilegio legale, ma spropositato?

I dati raccontano un’altra storia e, come aveva già documentato un’inchiesta a puntate (titolo I papponi delle pensioni) pubblicata nel maggio 2015 da Franco Bechis su Libero, allora diretto da Maurizio Belpietro, la risposta al quesito è presto detta. I cosiddetti vitalizi d’oro erano il risultato di un meccanismo perverso (ma non per le tasche dei politici), inaccessibile a qualsiasi lavoratore normale. Di fatto un investimento finanziario unico nel panorama italiano, con rendimenti da capogiro: un capitale iniziale relativamente basso, grazie a un’aliquota minima versata dagli enti parlamentari, che si traduceva in assegni vitalizi moltiplicati fino a dieci volte.

«Altro che fondi pensione», scriveva Bechis: bastava un passaggio, anche breve, in Parlamento per assicurarsi per decenni assegni da migliaia di euro al mese, spesso già percepiti a partire dai 60 o persino 50 anni, molto prima rispetto a qualsiasi lavoratore comune. Nello specifico, il contributo effettivamente versato dagli onorevoli era modesto, coperto in gran parte da Camera e Senato con un’aliquota minima (8,8 per cento del lordo mensile), mentre i vitalizi che ne derivavano erano moltiplicati in modo sproporzionato. Una pacchia che, fino al 2012, era persino più generosa. Va sottolineato che il sistema non era illegale: le norme allora vigenti lo consentivano.

Tuttavia, era una regola profondamente iniqua: «Con 5 anni di contributi, il vitalizio maturava a 65 anni. Con 6 anni, a 64. Con 7 anni, a 63. E così via, fino a 10 anni, che garantivano la pensione a 60 anni e persino a 50 se eletti prima del 1997», spiegava Bechis. «In barba a tutti gli altri lavoratori d’Italia, che a quell’età non possono fermarsi nemmeno con 30 anni di contributi».

Tra i casi più eclatanti messi a nudo dall’inchiesta, quello che riguardava Stefano Rodotà, ex garante della privacy, scomparso nel 2017: per una carriera parlamentare che aveva comportato versamenti per un totale di 241.610 euro, ne aveva incassati quasi 1,2 milioni, con un surplus di circa 900 mila euro. Il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari per un mandato parlamentare ha ricevuto 908.000 euro di pensione a fronte dei 60 mila versati. Giuliano Amato aveva versato 300 mila euro, incassando oltre 1,1 milioni. Romano Prodi aveva raddoppiato i 120.805 euro versati ricevendone 240.654. L’ex governatore della Campania, Antonio Bassolino, era riuscito a quintuplicare i contributi incassando 616.837 euro dopo averne versati 120.805. Tra i «campioni» delle plusvalenze delle pensioni figuravano anche Rosa Russo Iervolino (incasso triplicato con 907.835 rispetto ai 362.415 versati), Claudio Martelli (955.574 euro incassati a fronte di 241,610 euro versati) e Achille Occhetto (632.937 euro incassati a fronte di 371.736 euro versati). L’ultimo segretario del Pci, all’epoca dell’inchiesta, disse che «avrebbe anche potuto rinunciare all’assegno mensile di 5.860 euro», aggiungendo però che «il vitalizio gli serviva per evitare di finire in povertà». E c’erano anche l’ex sessantottino Mario Capanna, che da ex consigliere lombardo percepiva addirittura il doppio assegno, Luciano Benetton, il fiscalista Augusto Fantozzi, perfino il cantante Gino Paoli, deputato Pci dal 1987 al 1992, e altri, tutti con un guadagno che spaziava da centinaia di migliaia a oltre un milione di euro in più di quanto effettivamente versato.

Ancora più emblematico è il fatto che non fosse necessario restare in Parlamento a lungo: il radicale Luca Boneschi – morto il 13 ottobre 2016 all’età di 77 anni – fu proclamato deputato il 12 maggio 1982 e si dimise il giorno successivo, ma incassò circa 500 mila euro a fronte di un versamento contributivo di 60 mila. Piero Craveri – morto il 23 dicembre 2023 a 85 anni – con una permanenza di appena sette giorni in Senato, ottenne comunque il vitalizio, percependo 2.159  euro netti al mese fino al 2018, avendo versato solo poco più di 60 mila euro di contributi.

Nel 2018 la questione divenne vitale e centrale per costruire la narrazione politica dei 5 Stelle che avevano bisogno di un segnale forte e simbolico per portare avanti quel vecchio proposito di «aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno». Dimostrare che la politica non è una rendita di posizione e che per deputati e senatori dovevano valere le stesse regole di tutti gli altri cittadini era il modo migliore per farlo. Tuttavia, prima dei grillini, c’era chi denunciava lo scandalo dei vitalizi. Spulciando le pagine dell’inchiesta si scopre come si fosse mobilitata una già agguerrita Giorgia Meloni. Nell’intervista del 16 maggio 2015, la leader di Fratelli d’Italia, oltre a puntare il dito contro quelli che definiva «i figli della sinistra radical chic, i sessantottini per cui l’uguaglianza è fondamentale, ma solo quando vale per gli altri», rivendicava un emendamento – poi respinto – che avrebbe previsto il ricalcolo di tutte le pensioni d’oro e dei vitalizi: «Se uno ha versato contributi corrispondenti per prendere una pensione anche di 90.000 euro, continuerà a prenderla, ma se non sono stati versati, allora la parte in eccedenza doveva essere revocata e con quelle risorse si potevano aumentare pensioni minime e di invalidità». Proposta che però fu cancellata dalla maggioranza con un semplice emendamento soppressivo, senza nemmeno tentare di migliorarla: «È la solita storia: guanti di velluto per le pensioni d’oro, mannaia per tutti gli altri» chiosò Meloni.

Oggi il Parlamento si ritrova, ancora una volta, a discutere di vitalizi come se fosse una partita senza fine. In attesa della sentenza definitiva del Collegio d’Appello della Camera (il governo non ha potere sui regolamenti interni del Parlamento) la carica degli oltre mille ex onorevoli continua a frignare appellandosi a un privilegio consolidato da regole che nessun altro lavoratore può sognarsi. «Per me il Parlamento è sacro, il discredito è iniziato con Craxi e le monetine, ed è proseguito con i 5 Stelle che hanno sparso odio», ha lamentato Guzzanti. 

Nel frattempo, si è già svolta una seconda udienza davanti al tribunale interno di Montecitorio, dove la camera di consiglio è chiamata a decidere se accogliere o respingere la richiesta di annullare la delibera Fico. E non sono mancati momenti di tensione fra i legali degli ex parlamentari e il collegio presieduto da Ylenja Lucaselli (FdI), mentre l’ex pornodiva Staller ha avanzato una richiesta di risarcimento danni da 10 milioni di euro. Finora, ai ricorrenti più giovani, il Consiglio di giurisdizione aveva dato torto, ritenendo proporzionato il taglio rispetto a quanto versato. Ma anche loro non si sono arresi e confidano che il Collegio d’appello riconosca il principio della «legittima aspettativa» già invocato due anni fa per i colleghi più anziani.

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Panorama

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