Debito globale fuori controllo: l’Europa invoca il MES, l’Italia resiste

  • Postato il 24 maggio 2025
  • Di Panorama
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A volte ritornano, e non è un buon segno. La scorsa settimana alla riunione dell’Eurogruppo – sono i ministri dell’Economia dei venti Paesi che adottano l’euro – è riemerso il Mes o Fondo salva-Stati che dir si voglia. Perché? Tira una brutta aria di debito nel mondo. Evocare il Meccanismo europeo di stabilità è assai significativo; dovrebbe servire a tamponare una falla nei conti pubblici affiancato a uno strumento che si chiama «back-stop» per aiutare le banche in difficoltà. L’Italia come si sa è la sola nazione che non ha ratificato il Mes pur avendo versato la quota, il 18 per cento, di sua pertinenza: 15 miliardi. In totale il Mes è capitalizzato con 80 miliardi (più 68 del back-stop). Il commissario agli Affari economici Valdis Dombrovskis ha insistito: «Approvate il Mes come aveva promesso il governo Conte 2 (quello Cinque stelle-Pd, ndr), soprattutto per la funzione del back-stop» e il direttore esecutivo del Mes, Pierre Gramegna ha rincarato: «Abbiamo quei soldi fermi se ce n’è bisogno, come si fa?».

Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, ma anche esponente della Lega che sul Mes ha sempre fatto muro, non ha neppure «accusato ricevuta». Però la domanda sorge spontanea: perché riparlare di questo Fondo nel momento in cui le banche, almeno quelle italiane che chiudono con 49,6 miliardi di utili il 2024, sono in salute e mentre in Ue tutto tace sull’unione bancaria al punto che il governo tedesco impedisce a Unicredit di scalare Commerzbank? Perché prevedere uno strumento di soccorso al debito quando gli spread – almeno quello italiano sta sui 100 punti – sono abbastanza calmi? La risposta è facile: perché in Europa sul piano economico si teme la valanga di debito mondiale e su quello politico si teme che l’Italia potrebbe diventare un po’ troppo eterodossa nei confronti dell’eurocrazia diventando leader dei Paesi che svoltano a destra. Così attraverso il Mes si può cercare di commissariare il governo.

La prova generale fu fatta ai tempi dell’esecutivo di Mario Monti che non a caso volle aderire, versando i famosi 15 miliardi, che stanno fermi lì da 13 anni, al Meccanismo di stabilità. Ma c’è un’altra ragione: Ursula von der Leyen insiste per finanziare col debito comune il ReArm Europe – ormai si è capito che serve alla Germania, non all’Ucraina, e perciò s’ha da fare – e il Mes è un ottimo mezzo per costringere i Paesi dell’euro a pagare. L’innesco di questo processo è il debito mondiale montante.

È arrivato a 324 mila miliardi di dollari – tenendo conto del passivo di governi, banche, imprese e famiglie – e il Fondo monetario internazionale guidato da Kristalina Georgieva ipotizza che da qui a cinque anni supererà il 100 per cento del Pil mondiale. Se ci si limita al debito pubblico – cioè quello dei governi – secondo la stima dell’Ocse siamo oltre i 100 mila miliardi di dollari. Il debito totale dei Paesi sviluppati è salito a 214.300 miliardi di dollari e quello degli Stati in via di sviluppo è esploso a più 180 per cento del loro Pil a 103.700 miliardi con India, Brasile e Polonia che battono ogni record. Significa che la crescita è drogata. Stando alle cifre diffuse dal Global Debt Monitor i 7.500 miliardi di dollari di aumento del debito globale che si sono avuti nei primi tre mesi di quest’anno – e che hanno condotto al record – sono in capo a Cina, Germania e Francia.

Il presidente Emmanuel Macron ha portato il debito pubblico della Francia a 3.300 miliardi di euro (113,7 per cento rispetto al Pil) e le banche francesi ne hanno in pancia quasi 700 miliardi, per loro il Mes è una ciambella di salvataggio indispensabile e si spiega perché Lorenzo Bini Smaghi – presidente di Société Générale, la terza istituzione finanziaria francese – martelli continuamente in Italia sulla necessità di approvarlo.
Egualmente accade in Germania dove, abolito il freno al debito che stava in Costituzione – grazie all’accoppiata Monti-Napolitano l’Italia è rimasta la sola ad avere il pareggio di bilancio come obbligo costituzionale – la spesa pubblica si sta gonfiando e il vicecancelliere nonché ministro delle Finanze Lars Klingbeil, socialdemocratico desideroso di rimpinguare la spesa di welfare, ha già detto che del patto di stabilità Berlino può fare a meno.
La sua collega di governo Katerina Reiche (Cdu), che ha la responsabilità dell’Economia, ha invece espresso forti preoccupazioni: il Pil tedesco è previsto al massimo allo 0,2 per cento di crescita nel 2025 con un rapporto deficit/Pil in impennata.

In tanta instabilità il Paese che meglio si comporta per ora è l’Italia, la «dissidente del Mes», che ha anche una ritrovata affidabilità sui mercati: i rendimenti dei nostri Btp sono più stabili di quelli dei titoli di debito francesi e tedeschi. Una ragione in più per metterci sotto tutela del Mes visto che l’Italia va forte grazie al suo export (siamo oltre i 700 miliardi di euro) e che il debito globale influisce moltissimo sul commercio mondiale.

La Cina ha dovuto in qualche modo subire la guerra dei dazi di Donald Trump perché in tre mesi ha fatto altri duemila miliardi di dollari di debiti e, previsione della Georgieva del Fondo monetario internazionale, entro l’anno il debito pubblico cinese sarà oltre il 100 per cento del Prodotto interno lordo. In compenso ha esportato negli Stati Uniti il 21 per cento in meno.

La debolezza del dollaro gonfia il valore nominale del debito espresso in altre valute (euro, renminbi, yen) e la guerra dei dazi può portare a uno squilibrio: si vende di meno, perciò l’incidenza del debito aumenta. In Europa questo è esiziale per Francia e Germania e si spiega la rabbiosa reazione di Ursula von der Leyen verso il presidente americano. C’è un ulteriore fattore di inquietudine che divarica le posizioni tra la Federal Reserve e la Banca centrale europea. Christine Lagarde ha sin qui navigato di conserva rispetto alle mosse dell’omologo americano Jerome Powell, ma ora la situazione è differente. L’Europa non cresce (l’ultima stima è di un risicato 0,9 per cento e Lagarde non può fare politiche monetarie troppo restrittive: deve sostenere la domanda interna anche con un rischio inflattivo e deve evitare la rivalutazione dell’euro, già indotta dalla debolezza del dollaro, che costituisce un handicap all’export europeo e prima di tutto di quello tedesco.
Al contrario Powell ha un problema di finanziamento del debito americano. Se si incrementano le emissioni di «Tresaury bond», i titoli di Stato, ci sarà un aumento dei rendimenti che gonfiano l’inflazione con inevitabile rincaro dei tassi per contenerla. Ma una spinta inflazionistica mondiale si tradurrebbe in crollo dei consumi. Negli Stati Uniti si è stimato che l’impatto delle manovre di Trump sui dazi potrebbe portare a una diminuzione fino al 10 per cento dei consumi, i supermercati sono preoccupatissimi.

In Cina c’è stagflazione. L’inflazione viaggia verso i due punti di aumento, Xi Jinping ha ordinato un taglio dei tassi, malgrado il corso inflazionistico, per sostenere la domanda interna debolissima come dimostra il crollo di Pdd Holdings – la più importante piattaforma di e-commerce – che ha perso 78 miliardi di dollari e il crollo del mercato immobiliare con una diminuzione di quasi un terzo delle transazioni.

Gli analisti di «IV», centro per la ricerca tedesco, denunciano una traiettoria di contrazione del Pil della Germania dello 0,2 per cento a causa di un blocco dei consumi interni, stimano che la Cina non crescerà più del 4 per cento, un dato largamente insoddisfacente che acuisce l’impatto negativo della sovraccapacità produttiva del Dragone.
In Europa non va meglio. Uno studio Coop (grande distribuzione) e Nomisma dice che al di là di quelli obbligati (salute, energia, alimentari) i consumi saranno stagnanti. I manager intervistati – 500 in tutto il Vecchio continente – vedono assai nero: la crescita del Pil si attesterà allo 0,5 per cento, inferiore alla stima di Eurostat dello 0,9. Il 60 per cento degli intervistati pronostica l’Ue in difficoltà frenata dalla recessione tedesca e il 77 per cento pensa che potrebbero rendersi necessari dazi protezionistici. In tali condizioni il debito mondiale è potenzialmente esplosivo anche per la massa di titoli che devono essere rifinanziati: quest’anno vanno a scadenza circa settemila miliardi di dollari di debito degli Stati emergenti e oltre 19 mila miliardi delle economie mature. Si deve rinnovare una massa di debito che supera il Pil degli Usa e, tra guerre in armi e guerre di tariffe, siamo «Mes» male.

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Panorama

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