“Death of a unicorn” con Jenna Ortega è come un dettato bulimico di mille spunti già digeriti da “Jurassic Park” e non vuole stare dentro le griglie della fiaba

  • Postato il 13 aprile 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“It’s a fucking unicorn”. Difficile che Jenna Ortega (sua la battuta iconica del film) diventi grande mettendo in curriculum “Death of a unicorn”, una commedia gore eat-the-rich satireggiante diretta da Alex Scharfman (produttore all’opera prima) e prodotto dalle bizzarre fucine di A24 (Substance, Everything everywhere all at once).

Appunto “mangiare i ricchi”, un filone dissacrante che una volta suonava politico con Teorema di Pasolini, poi è risuonato altrettanto politico di recente con “Parasite”, infine è diventato modaiolo e frivolo negli ultimissimi anni con titoli come “The Menu”, “Triangle of sadness”, “Saltburn”. “Death of a unicorn” non casca lontano.

L’impacciato avvocato aziendale Elliott (Paul Rudd) viaggia in auto con la figlia, la studentessa universitaria Ridley (Ortega), per raggiungere la tenuta dei Leopold, miliardari del farmaco e viscidi filantropi, nascosti in una riserva naturale omonima tra le Montagne Rocciose (in realtà il set è ungherese).

All’ordine del giorno ci sarebbe una sorta di passaggio di consegne burocratiche tra il vecchio capofamiglia malato di cancro (Richard E. Grant) e Elliott, ma tutto comincia a girare per il verso sbagliato, e fantasy, quando l’auto del duo protagonista travolge una strana creatura grigiastra che sembra un cavallo ma con un lungo affilato e contorto corno sulla testa. L’unicorno sembra morto ma ha come un’energia vitale autorigenerante attraverso proprio quello strano corno che si illumina come un lampione.

Invece di soccorrere la bestia morente Elliott, tra le vane proteste di Ridley, cerca di finirla a sprangate, la carica e la nasconde in auto, raggiunge i Leopold, ma durante la sera, proprio mentre la signora Leopold (Tea Leoni) e l’inetto rampollo Shep (Will Puolter) inscenano il ridicolo teatrino dei ricchi capitalisti buoni (la servitù svalvola tra il maggiordomo di Django e quello del Rocky Horror), l’unicorno resuscita nuovamente. Una violenta inserviente dei Leopold gli sparerà, la salma della bestia verrà studiata e sezionata dai medici personali del magnate, mentre Ridley e Elliott scoprono che gli schizzi di sangue (viola) dell’unicorno hanno fatto sparire sia l’acne che la miopia.

Mister Leopold non si lascerà sfuggire l’occasione di iniettarsi sangue miracoloso per sconfiggere (con successo immediato) il cancro e utilizzarlo per i ricchi “amici di Davos”, ma l’irruenta reazione di papà e mamma unicorni provocherà una battuta di caccia modello Predator che farà finire un po’ tutto in vacca.

Nonostante la presenza di queste splendide e comunque rabbiose vendicative creature (spesso in scena hanno utilizzato veri pupazzoni) “Death of a unicorn” è come un dettato bulimico e riottoso di mille spunti già digeriti (Jurassic Park, Alien): non vuole stare dentro le griglie della fiaba, utilizza l’impalamento dei protagonisti da parte degli unicorni per strappare la tela del convenzionale senza incidere un proprio gusto o sguardo, soppianta il registro metaforico di una parvenza di lotta di classe (Bong Joon Ho, mio dio, a cosa hai dato involontariamente vita?) per quello demenziale pop.

Inoltre se già nell’incastrare una dozzina microsvolte narrative nella prima mezz’ora il film zoppica vistosamente, il brodo si allunga con molta superficialità e un pizzico di noia quando gli unicorni assaltano la magione. Insomma, chi troppo vuole nulla stringe. Di fondo la cifra estetica e culturale del film di Scharfman è ben rappresentata dal solito modino con cui gli statunitensi attingono alla storia europea per dare un decoro intelligente alle proprie gesta artistiche. Gli arazzi veri di fine quattrocento intitolati La dama e l’unicorno e Caccia all’unicorno che appaiono nelle ricerche al pc di Ridley – un personaggio che nemmeno fa lo sforzo empatico di parteggiare spielberghianamente per le creature, di fronte a tanto orrore umano – sono la ciliegina su una torta multistrato senza un vero e proprio accattivante sapore.

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Il Fatto Quotidiano

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