De Meo lascia Renault e il mondo dell’auto, la sua nuova sfida è nel lusso

  • Postato il 16 giugno 2025
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Arrivano le dimissioni. Cinque anni fa, Renault era un malato grave. Oggi è un paziente dimesso, con cicatrici evidenti ma in piedi. Il merito? In buona parte, suo: Luca de Meo. Il manager italiano chiamato a resuscitare la Losanga dopo l’era Ghosn, gli scandali, la crisi d’identità. E ce l’ha fatta. Piano Renaulution, tagli chirurgici, rilancio dei marchi, strategia chiara. E poi, all’improvviso, il colpo di scena: se ne va. Dal 15 luglio, non ricoprirà più l’incarico.

Il Cda, presieduto da Jean-Dominique Senard, usa toni istituzionali: “Il Consiglio esprime gratitudine a De Meo per la svolta e la trasformazione del Gruppo Renault”. La nota ufficiale parla di “piano di successione già definito”, di fiducia nel management interno, di volontà di “accelerare la trasformazione”. In altre parole: sapevano che poteva succedere, e si sono preparati. Il tempismo, però, spiazza.

Un addio che pesa più del previsto

A leggere bene tra le righe, la scelta c’entra poco con le “nuove sfide” e molto con una sensazione velenosa: l’automotive, in Europa, è diventata un bersaglio. Da passione e simbolo a problema. Da regolare, tassare, colpevolizzare. E allora viene da chiedersi: se anche uno come de Meo — che l’auto l’ha difesa — getta la spugna, quale futuro ci aspetta?

Secondo Le Figaro, il manager sta per passare a Kering, colosso del lusso guidato da François-Henri Pinault. Se fosse confermato, il cambio di rotta sarebbe epocale. Dal metallo al velluto. Dalla fabbrica al défilé. Piano però a chiamarlo salto nel vuoto: è un salto nella cultura. Oggi, paradossalmente, la moda ha più legittimità delle quattro ruote. Può ancora parlare di bellezza. I motori? Affiorano dubbi. Alle Case tocca sempre spiegare perché consumano, quanto inquinano, rendere conto dei piani di transizione ecologica, pena sanzioni.

E allora sorge il sospetto, forte come un pugno nello stomaco: che de Meo abbia capito prima di altri che il gioco è truccato. Lo ha detto lo stesso dirigente pochi mesi fa, in tandem con John Elkann, esprimendo preoccupazione per l’assenza di visione strategica. O ti adegui alla linea — elettrico a tutti i costi, burocrazia a valanga, storytelling colpevolista — o sei fuori. Lui ha provato a restare. Un uomo impegnato su mille fronti, tra cui il rilancio di Dacia e la sportività Alpine. Nel mentre, ha tenuto il punto sul termico in un mondo governato dall’instabilità. Ma se anche uno come lui ha smesso di incidere, allora forse è il sistema a essere irrecuperabile.

Clima di sfiducia

L’uscita smette, perciò, di sembrare esclusivamente personale. Per una vasta schiera di analisti contiene una velata ammissione: “non ci credo più”. O almeno, non credo più di poter cambiare dall’interno. Meglio chiudere il cerchio, evitare di diventare un burocrate con la cravatta verde, e aprire un nuovo fronte. Lì dove i sogni sono ancora autorizzati.

Il paradosso sta proprio qui: l’industria dei motori ha creato l’immaginario del Novecento. Oggi viene trattata alla stregua di un vizio da estirpare. E il punto di rottura è stato culturale, prima ancora che economico. Per questo la fuga verso il lusso trascende semplici ragioni di carriera. Si tratta di un cambio di campo. Il settore ha smesso di essere il cuore del presente continentale. L’addio di De Meo pare un avviso ai naviganti.

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Virgilio.it

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