Dazi à gogo sulla Cina? L’assist di una commissione indipendente a Trump
- Postato il 20 novembre 2024
- Esteri
- Di Formiche
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L’ultima relazione della United States-China Economic and Security Review Commission, pubblicata ieri, sembra una luce verde a Donald Trump, che ha promesso dazi al 60 percento sui beni cinesi e starebbe valutando di togliere alla Cina lo statuto che consente relazioni commerciali normali e permanenti (“permanent normal trade relations”). Infatti, la commissione indipendente ha suggerito al Congresso di procedere in quella direzione. Una mossa del genere potrebbe mettere la Cina nella stessa fascia commerciale di Cuba, Corea del Nord, Russia e Bielorussia.
Come osserva Foreign Policy, molti a Washington sostengono che la Cina abbia abusato di questi privilegi – concessi più di due decenni fa, quando la Cina si stava preparando ad aderire all’Organizzazione mondiale del commercio – per inondare gli Stati Uniti di merci cinesi, impoverire la produzione statunitense e rubare la proprietà intellettuale. La commissione ha fatto eco a queste preoccupazioni e ha auspicato “una maggiore leva per affrontare i comportamenti commerciali sleali”.
Nei giorni scorsi una proposta di legge in questa direzione è stata depositata da John Moolenaar, repubblicano del Michigan, presidente della commissione sulla competizione strategica tra gli Stati Uniti e il Partito comunista cinese alla Camera dei rappresentanti. La sua proposta prevede dazi del 35 percento sulle merci cinesi, con la possibilità di aumentarli al 100%. La scommessa del 2000 “è stata persa”, si legge in una nota. Nei due decenni successivi, “l’industria manifatturiera statunitense si è impoverita, le aziende americane hanno subito il saccheggio della loro proprietà intellettuale a causa della coercizione economica del Partito comunista cinese e quest’ultimo è diventato il principale avversario dell’America”, conclude. I senatori repubblicani Tom Cotton, Marco Rubio (prossimo segretario di Stato) e Josh Hawley hanno presentato una proposta simile in Senato nei mesi scorsi.
Che impatto avrebbe una simile decisione? Per la Cina significherebbe deflazione di almeno tre punti percentuali. Mentre, secondo il Peterson Institute for International Economics negli Stati Uniti provocherebbe “un aumento dell’inflazione e un calo a breve termine del prodotto interno lordo”, dal quale “l’economia non si riprenderà mai completamente”. La perdita di produzione e di occupazione sarebbe avvertita in modo disomogeneo in tutta l’economia, con l’agricoltura, la produzione di beni durevoli e l’industria mineraria che subirebbero i colpi più duri, si legge nel rapporto. E ancora: i prezzi del mercato azionario crollerebbero, con le imprese agricole, manifatturiere e minerarie che assorbirebbero i maggiori ribassi. infine, tutti questi impatti sarebbero amplificati in caso di ritorsioni da parte della Cina. “Ironicamente, la revoca danneggerebbe il settore industriale statunitense e contribuirebbe ad aumentare il deficit commerciale degli Stati Uniti”, concludono gli esperti.
Intanto, Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, ha definito la relazione della commissione come “piena di disinformazione e diffamazione”, che riflette un “pregiudizio radicato”. “I tentativi di riportare le relazioni commerciali ed economiche tra Cina e Stati Uniti all’epoca della Guerra Fredda violano le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio e non faranno altro che danneggiare gli interessi comuni di entrambi i Paesi e sconvolgere l’economia globale”, ha aggiunto citato dal Washington Post.
Tra le altre raccomandazioni della commissione ci sono: l’istituzione di programma su larga scala per diventare una superpotenza dell’intelligenza artificiale, con un parallelo con il Progetto Manhattan della Seconda Guerra Mondiale che portò alla creazione della bomba atomica; la necessità di uno “sforzo chiaramente coordinato e guidato dagli Stati Uniti per costruire una coalizione di Paesi che la pensano allo stesso modo” per contrastare la Cina. Quest’ultimo è un messaggio chiaro a Trump, che nella sua prima amministrazione si è distinto sia per l’approccio unilaterale verso la Cina sia per le tensioni con gli alleati europei.