Dall’attacco alle basi Usa alla chiusura di Hormuz: la possibile risposta dell’Iran a Trump. Intanto è ‘caccia all’americano’
- Postato il 23 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il bombardamento americano contro alcuni siti nucleari iraniani segna una pericolosa escalation nella lunga partita strategica tra Washington e Teheran. L’azione, rivendicata come “preventiva” dagli Stati Uniti, ha colpito installazioni sensibili legate al programma nucleare civile dell’Iran, giustificandola con il sospetto che vi fossero attività “non dichiarate” a fini militari. L’attacco rappresenta un precedente grave, poiché per la prima volta da anni Washington ha preso di mira infrastrutture statali iraniane fuori da un teatro di guerra terzo. È
Con questa premessa, la questione centrale non è solo come l’Iran risponderà sul piano tattico o militare, ma come ricalibrerà la propria postura strategica in un contesto regionale sempre più arroventato. Lungi dall’essere un attore “irrazionale” o imprevedibile, Teheran – oggi molto più isolato a livello regionale di quanto non lo sia la stessa Israele che può invece contare su una architettura di sicurezza che ad esempio le permette di sorvolare senza patemi i cieli di almeno tre Paesi e di usufruire dei loro sistemi di difesa aerea quando l’Iran risponde – ha spesso mostrato una notevole resilienza strategica, nonché capacità di agire con freddezza, bilanciando l’impulso alla reazione con una più ampia visione della sua deterrenza, oggi più danneggiata di quanto non lo siano le sue centrali nucleari.
Teheran oggi si trova di fronte a un dilemma strategico: reagire (al netto dei nuovi missili Khorramshahr-4 già lanciati su Tel Aviv, considerata in sostanza il mandante dell’azione americana, nonché lo Stato che ha iniziato questa guerra) per ristabilire un margine di deterrenza, cioè di uno strumento difensivo, senza però fornire agli Stati Uniti (o a Israele) il pretesto per un’escalation su larga scala o, peggio, un’azione coordinata di regime change. Alla luce di questo dilemma, la risposta iraniana potrebbe articolarsi su più livelli. In primis, è possibile che Teheran scelga, almeno nel breve termine, di colpire obiettivi americani o alleati nella regione – attraverso attori vicini come Hezbollah, le milizie sciite in Iraq o Ansarullah Houthi nello Yemen, in grado di minacciare la regolarità del commercio globale. Questo tipo di azione permetterebbe all’Iran di segnalare la propria capacità di risposta, magari contenuta da un punto di vista militare, senza entrare in un confronto frontale. Sebbene l’ambasciatore israeliano abbia ribadito che Israele si fermerà solo quando “la minaccia nucleare iraniana” sarà eliminata, altre fonti israeliane riferiscono che le autorità di Tel Aviv accetterebbero il cessate il fuoco nel caso in cui l’Iran fermasse le ostilità.
Una delle risposte iraniane più significative, nel medio e lungo termine, nonché dal punto di vista politico, potrebbe essere proprio la decisione di intensificare nuovamente il programma nucleare, con l’annuncio di un ulteriore incremento dell’arricchimento dell’uranio, magari oltre la soglia del 60%. Non necessariamente per costruire una bomba – obiettivo che Teheran nega e che finora non ha perseguito attivamente, usando l’ambiguità in merito come assicurazione difensiva – ma per alzare il costo politico e diplomatico di ulteriori pressioni. Sul piano geopolitico, è probabile che l’Iran investa ancora di più nelle proprie relazioni strategiche con potenze emergenti come la Russia e soprattutto la Cina, sempre più suo garante, cercando di rafforzare la narrativa di un mondo multipolare in cui l’unilateralismo americano non è più accettabile. La stessa Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), a cui l’Iran ha aderito nel 2023, potrebbe divenire un terreno più attivo di alleanze politiche ed economiche. È però anche vero che Pechino potrebbe opporsi a un’altra delle misure che l’Iran potrebbe decidere in risposta agli attacchi americani, cioè la chiusura dello Stretto di Hormuz, approvata dal Parlamento di Teheran.
È possibile che lo strike americano, a posteriori, abbia la funzione di suggellare la campagna di bombardamenti israeliana e quindi paradossalmente di chiuderla, ma non va nemmeno sottovalutata la possibilità che invece sia parte di una strategia più ampia, volta a indebolire il sistema iraniano dall’interno, tentando di forzarne un crollo, con una strategia a metà tra quella usata contro l’Unione Sovietica – a cui forse la Repubblica islamica, come struttura interna e tessuto sociale, somiglia più che non a una Somalia degli anni 90 – e quelle usate contro Saddam Hussein. Sanzioni, isolamento, attacchi mirati: la combinazione, già di fatto sperimentata in questi ultimi due decenni, potrebbe mirare a spingere la popolazione contro il proprio governo, nella speranza di una spinta “dal basso” verso il cambiamento di regime. Molto complicato. E storicamente è proprio in queste occasioni che il sistema iraniano, lungi dal collassare, tende a compattarsi. L’orgoglio nazionale e la memoria delle interferenze storiche – dal colpo di Stato del 1953 al sostegno occidentale all’Iraq di Saddam Hussein durante la guerra degli anni ’80 – contribuiscono a generare un riflesso di autodifesa collettiva, al di là delle polarizzazioni interne.
Se la risposta iraniana sarà calibrata, ma inevitabile, resta l’interrogativo su quanto gli Stati Uniti siano disposti a rischiare una nuova crisi regionale. In un contesto già appesantito dalla guerra a Gaza, dalla crisi in Libano e dall’incertezza irachena, un’escalation con l’Iran rischia di incendiare definitivamente l’Asia Occidentale, con conseguenze imprevedibili non solo per gli attori regionali, ma per l’intero ordine internazionale. In ultima analisi, la questione non è quindi solo cosa farà l’Iran, ma fino a che punto Washington è disposta a spingersi nel perseguire una strategia di contenimento che si mostra sempre più controproducente, nonché platealmente funzionale alla difesa degli interessi di Israele, con scarsi o nulli benefici per Washington stessa, anzi col rischio dell’emersione di nuove imprevedibili minacce alla sicurezza stessa degli americani nella regione, magari anche con azioni di lupi solitari, non necessariamente cooptati da qualcuno ma motivati dal fervore anti-americano. Propaganda o meno, poche ore dopo l’attacco americano in Iran la tv di Stato ha fatto sapere che le Guardie della Rivoluzione hanno diffuso un’allerta nella quale definiscono “ogni soldato o cittadino americano nella regione come un obiettivo militare”.
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