Dal pil pro capite agli stipendi, negli ultimi 30 anni tutte le regioni italiane sono arretrate rispetto al resto d’Europa. La politica tace

  • Postato il 17 dicembre 2024
  • Economia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Pubblichiamo un intervento di Paolo Maranzano, ricercatore di Statistica Economica presso il Dipartimento di Economia, Management e Statistica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, e Roberto Romano, economista del centro Està.

La politica nazionale è da tempo impegnata in aspre dispute che riflettono più che altro la necessità di segnare una posizione politica su alcuni e particolari temi contingenti, ma fatica a misurarsi con le grandi questioni economiche e le scelte strutturali che andrebbero fatte per fermare l’arretramento italiano nel consesso europeo e mondiale. Paradigmatica è la riflessione relativa alla così detta autonomia differenziata. Da un lato abbiamo i sostenitori sull’efficacia del decentramento di alcune (troppe) materie dal centro alla periferia, dall’altro la denuncia di chi intravede nell’autonomia differenziata una sorta di secessione dei ricchi dal Sud d’Italia. Si tratta di posizioni politiche legittime, ma entrambe eludono le grandi questioni economiche relative alla struttura sociale, economica e industriale delle regioni italiane, in particolare verso le regioni europee dell’Area Euro.

In realtà, le regioni italiane arretrano rispetto a quelle europee da molti anni; nemmeno le regioni che si (auto)proclamano “motore d’Europa” sono comparabili con le regioni europee più ricche o più produttive. Non si tratta solo di dati congiunturali legati alla produzione industriale, al reddito procapite, agli investimenti e alla spesa in ricerca e sviluppo, oppure alla remunerazione oraria del lavoro dipendente. Si tratta piuttosto di un arretramento strutturale che inizia a metà degli anni ’90 e prosegue fino ai nostri giorni. Nessuna regione italiana è stata capace di tenere il passo con quelle europee e, soprattutto, negli aggregati economici che meglio di altri qualificano la qualità e la conoscenza per diventare protagonisti in Europa: investimenti, Pil procapite, ricerca e sviluppo. La politica, in altri termini, litiga su chi sia più o meno ricco tra le regioni italiane, ma non ha visto il progressivo arretramento delle stesse regioni nel consesso europeo.

Nemmeno la decantata Lombardia è stata capace di agganciare le migliori regioni europee. Solo per fare un esempio, la spesa in Ricerca e Sviluppo è allineata a quella nazionale, distante dalla media europea di ben 1,5 punti percentuali, ma con una aggravante: in Lombardia ha sede la Leonardo (produce sistemi di difesa), cioè la società che da sola rappresenta il 30% di tutta la ricerca e sviluppo del Paese. In altri termini, la “locomotiva d’Europa” è una regione che rinuncia al proprio futuro e rimane agganciata alla media nazionale grazie a una partecipata pubblica nazionale che la Storia, per caso, ha ubicato dalle parti di Varese.

Ordinando le regioni europee in termini di Pil pro capite il divario tra Italia ed Europa è evidente: la Lombardia passa dal 14° posto del 1995 (35.816 euro) al 33° del 2023 (40.541 euro), il Piemonte passa dal 36° posto del 1995 (28.917 euro) all’84° posto del 2023 (31,550 euro), la Campania passa dal 125° posto del 1995 (17.400 euro) al 150° del 2023 (19.577). L’aspetto ancora più drammatico è legato alla dinamica degli investimenti e all’inevitabile arretramento del reddito per ora lavorata, conseguente anche alla bassa propensione alla spesa in ricerca e sviluppo. Gli economisti sottolineano che gli investimenti in rapporto al Pil possano restituire un’idea di come le imprese immaginano il proprio futuro. Al netto del Piemonte, la maggior parte delle regioni italiane arretra rispetto alle migliori regioni dell’Area Euro: la Lombardia passa dal 149º posto del 1995 (17,3%) al 114º del 2023 (20,5%); il Veneto passa dal 128º posto del 1995 (18,5%) al 71º del 2023 (23,2%); la Campania passa dal 64º posto del 1995 (22,0%) al 113º del 2023 (20,5). In altri termini, nel tempo è diventato sempre più difficile immaginare una crescita del Pil se le imprese stesse hanno smesso di credere nel futuro.

Da questa situazione non può sorprendere che la retribuzione oraria delle regioni italiane sia coerente con le pessime aspettative economiche del paese. Da un lato, la retribuzione oraria media rimane ancora troppo distante dalle migliori regioni europee e questa distanza non consente di agganciare una ripartizione del reddito coerente a quella europea. Dall’altro, le retribuzioni orarie non sono coerenti con la crescita della produttività, misurata come valore aggiunto per ora lavorata, che palesa un problema di struttura e governo del sistema economico che investe i sindacati, il capitale e lo Stato: la Lombardia passa dal 72° posto del 1995 (23,80 euro per ora lavorata) al 107° posto del 2023 (24,40 euro per ora lavorata); il Piemonte passa dall’82° posto del 1995 (23,00 euro per ora lavorata) al 114° posto del 2023 (22,60 euro per ora lavorata); il Veneto passa dal 105° posto del 1995 (20,40 euro per ora lavorata) al 120° posto del 2023 (21,60 euro per ora lavorata); la Campania passa dal 127° posto del 1995 (18,20 euro per ora lavorata) al 143° posto del 2023 (18,10 euro per ora lavorata). Come si può osservare, il livello del salario e l’adeguamento degli stessi salari alla produttività sono una questione di politica economica che attraversano tutte le regioni del Paese. Una questione che con il tempo assume contorni sempre più preoccupanti se comparati ai livelli delle altre regioni europee.

Con il passare degli anni solo alcune regioni sono rimaste allineate all’Europa, almeno fino alla comparsa dell’euro (2001), per poi perdere terreno e seguire sostanzialmente il corso di tutte le regioni italiane siano esse del Nord e/o del Sud d’Italia. Nemmeno le regioni più industrializzate hanno tenuto il passo europeo, concorrendo all’arretramento complessivo del paese rispetto all’Europa e in particolare all’Area Euro. Si tratta di un arretramento importante che restituisce la debolezza di tutte le regioni italiane nel consesso europeo. Il punto non è la divergenza di alcune regioni (di norma si pensa a Lombardia, Veneto e Piemonte) rispetto ad altre regioni nazionali, piuttosto emerge l’impossibilità di perseguire una politica economica capace di governare e consolidare la domanda e l’offerta potenziale del Paese, prodromo di una frammentazione di interessi particolari che allontanano ancor di più dall’Europa anche le regioni solo in apparenza migliori. Questa progressione “condanna” la politica: come è stato possibile non vedere questo arretramento? Come è stato possibile discutere di un Nord ricco e operoso e un Sud pigro e nullafacente? Come è stato possibile che l’antinomia diventasse senso comune?

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