Dal delitto di Garlasco a oggi: tutte le tappe di un caso oscuro
- Postato il 8 novembre 2025
- Di Panorama
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Una voce maschile al telefono rompe la quiete di Garlasco. È il 13 agosto 2007. Gli apparati della centrale per le emergenze registrano: «Mi serve l’ambulanza in via Giovanni Pascoli a Garlasco […], credo che abbiano ucciso una persona ma non sono sicuro, forse è viva. C’è sangue dappertutto e lei è sdraiata per terra».
Un confuso Alberto Stasi, 24 anni, studente alla Bocconi, il fidanzato di Chiara Poggi che poi verrà descritto come un cinico pianificatore con i nervi d’acciaio, chiama i soccorsi. Quando i carabinieri arrivano Chiara è già morta. È riversa sulle scale che portano alla cantina, in pigiama, scalza. In casa non ci sono segni di effrazione, non c’è disordine. Solo sangue. Sul pavimento, sulle pareti. Tracce.
Da quel momento quella casa borghese con il cancello in ferro battuto e il vialetto ordinato diventa la scena di un crimine e contemporaneamente il set di un ingarbugliato giallo. Comincia un’indagine che si trascina per 18 anni, attraversa tre gradi di giudizio, due assoluzioni, una condanna definitiva, e che oggi si riapre con un altro nome: Andrea Sempio, amico di Marco Poggi, il fratello di Chiara.
La scena del delitto
La scena viene compromessa: rilievi effettuati in condizioni discutibili, decine di investigatori entrati senza protezioni, il gatto della vittima libero di circolare. L’autopsia, svolta il 16 agosto, indica che Chiara è morta tra le 10.30 e le 13. Ma nel corso degli anni la finestra temporale viene spostata più volte.
Stasi è sospettato: era il fidanzato della vittima, conosceva bene la casa e le abitudini. E lei ha aperto in pigiama. Le scarpe calzate da Stasi sono numero 42, la stessa misura stimata per l’aggressore. L’arma non compare mai. Il racconto di Stasi appare agli inquirenti parziale e lacunoso, e il suo alibi non regge.
Le prime assoluzioni
Il 17 dicembre 2009 il Tribunale di Vigevano lo assolve «per non aver commesso il fatto». Nel 2011 anche l’appello conferma l’assoluzione. Ma due anni dopo la Corte di Cassazione annulla la decisione e ordina un nuovo processo, sottolineando che «è difficile pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza».
La condanna definitiva
Nel secondo processo d’appello, il 17 dicembre 2014, la prospettiva cambia. Gli indizi, presi uno a uno, non bastavano; messi insieme, costruiscono un quadro univoco. Stasi viene condannato a 16 anni di reclusione. Il 12 dicembre 2015 la Cassazione conferma: la condanna diventa definitiva.
Le motivazioni sono chiare: Chiara è stata uccisa da una persona che conosceva bene la casa e le sue abitudini. L’alibi non è ritenuto sufficiente a escludere la sua presenza sulla scena del crimine nella finestra temporale compatibile, circa 23 minuti.
L’aggressione sarebbe durata una decina di minuti: il tempo di entrare, colpire e fuggire. Altri sette minuti sarebbero stati necessari per percorrere in bicicletta la distanza tra le due abitazioni. Secondo la Cassazione, Stasi sarebbe poi tornato sul luogo del delitto per tentare di trasformarsi nel «ritrovatore».
Ma, scrivono i giudici, «se fosse effettivamente entrato, come da lui dichiarato, dopo l’omicidio nell’appartamento dei Poggi, non sarebbe riuscito a evitare di calpestare le macchie di sangue». Una in particolare: «Quella presente sui primi due gradini della cantina».
I giudici non ritengono possibile che sia riuscito a non sporcarsi le scarpe e non lasciare tracce sui tappetini dell’auto usata per andare in caserma. Sulla sua bicicletta, sequestrata il 14 agosto 2007, «erano stati montati pedali dissonanti da quelli originari» e su quei pedali fu trovata una traccia di sangue con il Dna di Chiara.
Infine, Stasi si sarebbe lavato in bagno con il sapone del dispenser, poi rimesso a posto, lasciando le sue impronte digitali.
I dubbi e le nuove piste
Eppure i dubbi restano: l’arma non è mai stata trovata, la scena del crimine fu gestita male, il movente non è mai stato chiarito. Le altre piste, pur emerse, non vengono approfondite.
Nel 2017 la vicenda si riaccende: emerge un nuovo nome, Andrea Sempio. Gli investigatori gli notificano un avviso di garanzia per omicidio in concorso con ignoti. Al centro delle nuove indagini c’è una traccia di Dna trovata sotto le unghie della vittima, ma anche tabulati e contatti telefonici che lo collocano a Garlasco, nonostante avesse consegnato agli inquirenti uno scontrino di parcheggio privo della targa dell’auto.
L’inchiesta su Sempio
La Procura di Pavia dispone intercettazioni ambientali e telefoniche: Sempio viene registrato in auto, mentre parla con i genitori. In una delle conversazioni si sente dire: «Mi hanno fatto alcune domande… secondo me erano abbastanza dalla mia».
Anche stavolta, però, le indagini appaiono frettolose e piene di buchi. Dopo un interrogatorio, parte la richiesta di archiviazione, accolta il 2 marzo 2017. Per le toghe, la consulenza genetica era «radicalmente priva di attendibilità».
La riapertura del caso
A sette anni di distanza, Sempio torna indagato per omicidio in concorso. La nuova indagine corre su due binari:
da un lato, la Procura di Pavia rivaluta tutti gli elementi raccolti a suo carico (comprese intercettazioni trascritte male nei punti cruciali); dall’altro, la Procura di Brescia scava nei conti dell’ex procuratore aggiunto Mario Venditti, indagato per corruzione in atti giudiziari.
Secondo l’ipotesi investigativa, avrebbe archiviato troppo in fretta il fascicolo su Sempio nel 2017. A supportare la tesi, un bigliettino sequestrato a casa Sempio con un appunto inquietante: «Venditti gip archivia per 20.30 euro».
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