Da eroe nazionale a traditore: Djokovic lascia la Serbia e si trasferisce ad Atene dopo essere finito nel mirino del presidente Vucic
- Postato il 12 settembre 2025
- Tennis
- Di Il Fatto Quotidiano
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Novak Djokovic ha iniziato una nuova fase della sua vita. Dopo la sconfitta in semifinale agli Us Open contro Carlos Alcaraz, il tennista è tornato a casa per ricaricarsi in vista dell’ultimo tratto di stagione. Ma la Serbia non è più la sua casa. Il 24 volte vincitore di titoli Slam si è stabilito definitivamente ad Atene con la sua famiglia. Stando a quanto riportato Nole ha iscritto i suoi due figli, Stefan di 11 anni e Tara di 8, al St. Lawrence College di Atene. Dietro questa scelta non ci sono ragioni climatiche e nemmeno fiscali. La questione è più delicata: la crescente ostilità politica e mediatica che lo ha colpito in patria. Negli ultimi mesi, infatti, Djokovic è stato preso di mira dai media vicini al presidente Aleksandar Vucic, che lo hanno bollato come “traditore” per il suo sostegno alle proteste studentesche contro il governo. Un’accusa pesantissima per un atleta che per anni era stato innalzato a simbolo di orgoglio nazionale.
Cos’è successo? Per capirlo bisogna tornare allo scorso novembre. Migliaia di studenti hanno guidato proteste di massa contro il governo denunciando corruzione, derive autoritarie e manipolazioni dell’informazione. L’episodio che ha fatto esplodere la rabbia in maniera definitiva è stato il crollo di una pensilina, ristrutturata da poco, nella stazione ferroviaria di Novi Sad che ha causato la morte di 16 persone. In molti hanno attribuito la tragedia a un sistema di appalti opaco e clientelare. Djokovic si è schierato pubblicamente sulla questione a dicembre, pubblicando questo messaggio sui social: “Poiché credo profondamente nella forza dei giovani e nel loro desiderio di un futuro migliore, ritengo sia importante che le loro voci vengano ascoltate. La Serbia ha un potenziale enorme e la sua forza più grande è rappresentata dai giovani istruiti. Ciò di cui abbiamo tutti bisogno è comprensione e rispetto. Con voi, Novak”.
Da quel momento, i segnali di vicinanza si sono moltiplicati. Agli Australian Open dedicò la vittoria su Machac a una studentessa investita da un’auto durante le manifestazioni, scrivendo su una telecamera “Per Sonja”. A Belgrado assistette al derby di basket tra Stella Rossa e Partizan con una felpa che recitava “Gli studenti sono campioni”. A marzo, quando circa 300mila persone invasero le strade della capitale, condivise sui social immagini della marcia definendola “storica e magnifica”. A Wimbledon invece, Djokovic lanciò un tormentone con il balletto “Pumpaj” dedicato ai suoi figli sulle note della hit “Pump it Up” (in italiano “pompalo”, “gonfialo”, ndr) del cantante belga Danzel. Ma non si tratta di una canzone qualsiasi: è il brano simbolo delle proteste studentesche. Tutto questo però gli è costato caro.
Tabloid come Kurir, Alo e Blic che lo esaltavano come “genio serbo” o “cavaliere d’oro del popolo” hanno improvvisamente cambiato registro. Testate filogovernative come Informer lo hanno descritto come “vergogna nazionale”, “falso patriota” e persino “sostenitore della violenza”. La frattura con chi sta al potere è poi emersa in modo clamoroso durante un evento pubblico organizzato da Vucic intitolato “Non rinunceremo alla Serbia”: il presidente lesse in diretta alcune lettere inviate dai cittadini, ma le immagini di TV Pink mostrarono che un messaggio originariamente dedicato a Djokovic era stato manipolato, trasformandolo in un omaggio al cestista Nikola Jokic. L’isolamento del tennista è diventato ancora più evidente ad agosto, quando gli organizzatori dell’Open di Belgrado – torneo la cui licenza è controllata proprio dalla famiglia Djokovic – hanno annunciato che l’edizione non si sarebbe svolta nella capitale serba, ma ad Atene. “Nonostante i nostri sforzi, non è stato possibile garantire le condizioni necessarie”, spiegava il comunicato ufficiale, lasciando intuire il peso delle tensioni politiche. E il clima in Serbia resta incandescente.
Emblematico quanto accaduto il 9 settembre, durante la partita di qualificazione ai Mondiali 2026 tra Serbia e Inghilterra: i tifosi delle Aquile Bianche si sono azzuffati tra loro per alcuni cori contro Vucic, segno di una frattura che attraversa ormai ogni livello della società. Djokovic, un tempo celebrato come figlio prediletto della nazione, si ritrova così nella veste opposta: da simbolo dell’orgoglio serbo a figura ingombrante, percepita come minaccia. La decisione di trasferirsi ad Atene appare quindi come la conseguenza inevitabile di un contesto sempre più ostile. L’uomo che aveva unito il Paese con i suoi trionfi sportivi ora è costretto a cercare serenità lontano da casa, portando con sé l’amarezza di chi è passato dall’essere icona nazionale a nemico pubblico.
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